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 NEL SEGNO
CHE L’ARTEFICE HA PENSATO

101 SONETTI

Dovrei essere orgoglioso di questa ammissione,
ma considerata la presenza di opere discutibili
(qualcuna, a mio parere, indecente)
nella cinquina dei finalisti,
mi sorgono dubbi
perfino sulla bontà della mia silloge…
Maggio 2023
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NOTA DELL’AUTORE

Fera sum: ferini nil a me alienum puto.
Sono una bestia: niente di ciò che è bestiale mi è estraneo!

                        La rivisitazione in chiave polemica e contemporanea del motto terenziano dell’Heautontimorùmenos (I, 77) [1] è quanto mai opportuna, anche se il verso originario, declamato dall’anziano Chremes, pare venisse accolto nei teatri romani gremiti di stolti e d’ignoranti con un’esplosione di applausi (Sant’Agostino, Epist. CLV, 4.14), e forse non proprio per l’ottimistica ragione che il Padre della Chiesa suggerisce, ovvero che l’allusione alla comunanza delle anime umane commovesse il sentimento comune di tutti, quanto piuttosto per l’apparire liberatoria giustificazione di qualunque umana pochezza.

La nuova formulazione è l’abito più idoneo per un uomo disumanizzato, sideralmente lontano dall’ideale latino del cultu atque humanitate (Cesare, De bello Gallico, I, 3); per un dis-uomo che non sa più distinguere il piccolo dal grande, il nobile dall’ignobile, il valore dal disvalore; che tutto piega al conseguimento dell’utile inutile – quanto meno per l’anima – il cui flusso viene incanalato, di fronte alla cecità della moltitudine, verso la torbida furbizia di pochi burattinai.
Il declino di ogni levatura è inesorabile. Non fa eccezione la sfera dell’arte: non, dunque, l’ambito della poesia.

«Ho letto sul supplemento La Lettura del Corriere che si annuncia e sarebbe in corso un “rinascimento della poesia”. Franco Manzoni, autore dell’articolo, avverte subito: “Torna a risuonare vincente il ritmo della poesia. È un dato di fatto, considerando le scelte editoriali per l’anno appena iniziato”.
‘Ritmo della poesia’? Raramente i nostri attuali autori di testi poetici hanno orecchio per il ritmo. La mancanza di qualunque ritmo è invece la cosa che si nota di più» (Alfonso Berardinelli, in La rinascita dei troppi poeti, Pressreader, 12 febbraio 2017).
Il rinascimento della poesia sta nella testa del Manzoni – niente a che vedere con l’autore de I Promessi Sposi! – e nello stuolo di vati se-pensanti, che pubblicano (leggi “comprano”) i loro “a capo” presso abietti editori a null’altro interessati che a impoverire le tasche d’illusi portenti del verso senza contenuti e senza vesti. Oggi la poesia coincide troppo spesso con l’uso cervellotico delle parole e del rigo: banalità senza nemmeno il suono, astrusità peggiori del peggior marinismo, singhiozzi e claudicazioni lungo le nere parallele delle pagine… Il verso libero è assurto a pretesto di un vertĕre dissoluto, dove più che la prosodia manca ogni estetica del battito, della successione melodica, dell’eufonia; la creatività ha ceduto il posto alla spregiudicatezza del figurato, quasi sempre nelle stoffe del pessimo gusto, perfino oltre la gran frittata barocca del padellon del ciel… del più scadente Giovan Battista. Oggi, come allora, il brutto è sangue genuino del bisogno di ottenere il consenso di un pubblico quanto più vasto possibile, di meravigliare l’ignoranza per adunare una plaudente platea di sguaiati ammiratori. Diversamente da allora, è parto e “valore” di un mercato sempre più avido, peculiarità di prodotti confezionati al solo scopo di venire, di essere venduti [2], per di più in dispregio della folla che, purché compri, crepi pure nella sua rozzezza! E rozzi è necessario che siano gli artigiani: non c’è spazio per la bellezza, non per la maestria, non per la sapienza. Alla gogna la cultura elitaria, riservata a pochi (per l’indolenza dei troppi): trionfi piuttosto il voltastomaco di massa, il cultus atque humanitas si chini verso il fango, giammai la melma sia purificata! I maiali grufolino nel letame: non hanno natura per sedersi a mensa.
Tutto – è naturale – con gran rispetto della dignità dell’uomo…
Contro questa rovinosa inclinazione – ma la massa dica pure trend -, io canto in 101 Sonetti [3], brindando al ritmo, ai contenuti, al pensiero, all’emozione ancora sincera, sia pure in un’età, la mia, che tramonta, in un’epoca, la nostra, già dentro la notte, sia pure nel tinnire di pochi calici eletti!

Amato Maria Bernabei 


 
Palazzo Magnani a Reggio Emilia, Giano Bifronte, L’Anno Vecchio e l’Anno Nuovo
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[1] Homo sum, humani nil a me alienum puto: Sono un uomo, nulla di ciò che è umano mi è estraneo.
[2] Venum ire, andare in vendita, essere venduti  (dal verbo vēnĕo -is vēnĭi –īre, venum + eo).
[3] Il numero 101 è il primo palindromo di tre cifre, e nella sua natura bifronte si riconnette a Giano, divinità simbolicamente collegata con i due solstizi, che abbraccia il tempo dalla profondità del passato alla lontananza del futuro. Il dio Giano “è da mettere in relazione non solo al simbolismo dell’anno, ma più precisamente con le due parti dell’anno stesso. Infatti, se con una retta dividiamo il cielo in due parti, delle due porte solstiziali, l’una apre la parte ascendente del sole e l’altra la parte discen-dente: la prima sotto il segno del cancro e l’altra sotto il segno del capricorno. Quindi Giano simboleggia, come
axismundi, un’unità che racchiude due entità: le due porte solstiziali o celesti che sono le porte degli uomini e degli dei di pitagorico riferimento” (Franco Miceli). Per di più Giano “era il dio di tutti gli inizi. Iniziato è colui che inizia il cammino, che entra dalla porta degli uomini. Gennaio è il primo mese, il mese di Giano: JanuariusJanua è anche la porta. Il nome di Janus evoca quello di Eanus, una divinità fenicia, rappresentata da un serpente che si morde la coda (Uroborus) simboleggiante l’eterno scorrere del tempo, il rinnovo senza fine, il fluido vitale cosmico, il principio universale” (Dario Banaudi).
Quanto detto, per chiarire che la scelta del 101 è strettamente correlata al sentimento del tempo e della sua vulnerabilità, motivo dominante dell’intera opera, per quanto talvolta esplicito, talaltra sommerso, ma anche alla natura ambigua della vita, sempre disorientata fra il reale e l’ideale.

Amato Maria Bernabei

Prefazione

Concepito come irrinunciabile omaggio a William Shakespeare, a 400 anni dalla sua scomparsa, l’opus costituito da questi “101 Sonetti” di Amato Maria Bernabei rappresenta un singolare riferimento che si concretizza come trait d’union tra l’esperienza passata e il moderno contesto letterario. La correlazione si inscrive nel percorso di un approccio dialettico che possa in qualche modo fondere la tradizione con l’attuale orientamento espressivo nei diversi piani strutturale, linguistico ed estetico.
L’approdo al sonetto, all’interno di un percorso poetico di grande spessore, propone singolari e avvincenti spunti di riflessione non già e non solo da un punto di vista formale, quanto piuttosto e in massima parte come scelta univoca supportata da una consapevole completezza estetica. Il dominio tecnico e artistico dello strumento declina una padronanza espressiva che permette una straordinaria fluidità narrativa alle tematiche portanti del pensiero. Le quali non alterano una poetica consolidata nel tempo, anzi detengono gli elementi tutti di un percorso individuale nell’umano incedere di un’esperienza irrisolta che, nella stagione del tramonto, perde le ormai fragili ancore, fino a gravitare nelle dimensioni cosmiche del nulla.
Il tratto speculativo deborda in un pessimismo metafisico che supera i confini della percezione e individua all’interno dell’universo la forza distruttiva. La percezione avvertita diventa unica realtà possibile; il breve volgere della primavera della vita già compone in sé un senso embrionale di nostalgia, forse di illusione. A mano a mano il giorno consuma gli argini, corrode gli ambiti di una disperata difesa, e nel declinare della parabola le sponde a stento trattengono il flusso inarrestabile che tracima e offende, seppure involontaria-mente, i frattali cromatici del tramonto.
Assenti i momenti di pura redenzione, si intravedono qua e là tuttavia ad una analisi profonda tracce di una possibilità remota di sedimenti di luce che, per qualche istante, attenuano il senso di una laicità esistenziale. Non si tratta certo di un ripensamento filosofico, ché anzi, se pure quella luce esiste, contribuisce ad una visione illusoria dell’assunto, ma della considerazione come evento paradigmatico di una condizione di per se stessa falsata ab origine. La negazione dell’esperienza terrena invade ogni percorso nel vorticoso andare verso il “nulla eterno”, approdo estremo di un nulla effimero che mai redime, nemmeno nelle espressioni più rassicuranti della natura, dell’arte, dello spirito. La corruzione anzi in questi casi incide solchi ancora più profondi sia nella versione semantica, che presuppone l’intervento dell’uomo, sia nelle strutture elementari dell’evento vitale.
Il concerto dei grilli nel perenne ripetersi di una presenza che il buio rende indecifrabile, evade il presente come essenza speculare del passato, cercando di recuperare, lungo i crinali del Sirente, il respiro della luna che torna come nei versi giovanili al tempo dei riposi estivi, tra le foglie di un fico secolare, dilatazione tonale di un passato comunque inaccessibile che il ciclo non salda.

E in alto, spesso, sul crinale fioco,
vive una luna limpida, a ponente,
e sembra respirare tra le foglie 

scabre del fico, che strofina roco
un tempo mai perduto e sempre assente
per l’anima che cerca, ma non coglie.

Un canto tracciato su uno spartito di pentagrammi antichi di note compromesse, sempre uguali, come ritorni di un immutabile fraseggio che torna a ripetersi, e anche nei rari stigmi rasserenanti, smarrisce suono, fino al silenzio.

che forse è un immutabile spartito:
pentagrammi di un foglio già stampato
dove trascorre il suono, ed è finito
nel segno che l’artefice ha pensato.

Pure, nella ostinata tensione drammatica dell’evento terreno è possibile avvertire dilatazioni o comunque compromessi che permettano di intravvedere ampiezze certo assai limitate, ma significative, di aneliti forse irrazionali, tuttavia non assenti. In questa ottica il ricordo, in ogni venatura di colore, diviene centralità di attimi, comunque vissuti, di un passato spensierato, di creduta felicità. Non a caso in questo ristretto ambito trovano significativa collocazione voci ed espressioni che si fanno metafore congeniali per una dialettica che coniughi l’esperienza sensoriale degli animali e l’incanto dei capolavori della natura con il processo speculativo che riconduce sui percorsi consueti.

Cantino il grido come un tempo, ancora,
le rondini felici al primo raggio,

e sull’altra sponda

godiamo puri al vento degl’ingrati
amori, sulle scene deformanti
delle marine e dei colli ombreggiati,
o dei crinali vividi o sfumanti.

Voci di una polifonia minore ma che conduce il cammino delle elementari emozioni in vallate più serene, immuni da tempeste devastanti. Ad un canarino, Rondini, Il vecchio contadino, Evasione, contengono emblematici riferimenti ad una condizione esistenziale altra, germogliata e cresciuta nel naturale quotidiano tra il canto agreste e la fatica del raccolto, tra la dimensione goliardica di una creduta spensieratezza e la condizione rassicurante di un rifugio protetto, seppure angusto; riferimenti che sono narrazione, giammai partecipazione.
L’assenza di una fede anche soltanto intuita traccia profondi fossati che inibiscono ogni possibilità di attraversamento alla volta dei campi di un credo accettabile. Eterno silenzio… di più: “nulla eterno”. Immobilità nella quale può naufragare anche il miracolo della scrittura, estremo baluardo ancora accessibile solo che si creda fermamente nelle sue capacità di risonanza atemporale, solo che tu canti un canto che illumini anche la notte che non ha fine, perché in quel caso

sai che il tuo segno mille volte dura
e si protende oltre qualunque raggio,
come un’eco incessabile perdura …

L’inganno esistenziale si esplicita in una dualità divergente essendo l’elemento che genera illusione tanto sovrastante da risultare distruttivo. L’esperienza a mano a mano coglie l’intima sostanza di apparenti trasparenze che presto mutano in opposte attese verso la certezza della notte irreversibile. In forza della loro natura antitetica le due categorie non hanno tratti equivalenti che potrebbero quantomeno sfumare la tensione inesauribile di una lotta senza speranza. A niente valgono attenuanti respiri che il percorso poetico evoca come conseguenze di quel sistema gravitazionale. Il rimpianto ad esempio inteso non tanto e non solo come nostalgico richiamo di cose perdute quanto come assenza totale di un accento che non concede al silenzio il termine ultimo.

Di troppo oblio trabocca questa tregua,
come tanti silenzi in un silenzio
dentro uno spazio dove si dilegua
il suono …

L’illusione attraversa ogni corda dell’anima, nella tensione del “tempo migliore”, nei morsi di una falsità che la natura trama già prima che l’inverno renda arida l’erba, nell’angoscia degli ultimi tramonti, quando i policromi giochi di luce cercano invano ancore che lascino di nuovo credere ad un ritorno di cieli azzurri.
Da questa dialettica si chiarisce un sostanziale sviluppo dinamico dell’inganno. L’errore dei sensi slitta verso una visione oggettiva dell’elemento che detiene invece, per l’essenza stessa dell’individuo, una soggettiva percezione della realtà. Sicché non è possibile prescindere da una valenza affatto personale, che è esito e sintesi di un vissuto peculiare nella sua complessità unica e irripetibile. E in questo vissuto si inscrive irreversibile e malinconico, invasivo e nostalgico il senso inquieto del ricordo che nella duplice percezione della bellezza e del rimpianto ricompone il percorso di un tortuoso andare.
La memoria diviene chiave di lettura che apre i cancelli del tempo e invade i terreni fertili della speranza, delle attese di un’aurora interminabile di rugiada. Ma presto l’aspettativa, mentre ancora il respiro della giovinezza indugia nei pensieri soavi (Leopardi), frantuma nel vortice di una realtà che trasgredisce ogni forma e rompe il patto esistenziale senza alcun apparente, plausibile motivo. In questa prospettiva anche se il ricordo mantiene intatti gli incompresi motivi del vivere, tuttavia recupera, di tanto in tanto, soprattutto nelle anime semplici, avvertite emozioni di una condizione altra capace di cogliere, anche nelle avversità, un’istintiva, naturale serenità che nel lavoro appassionato, nella speranza di un raccolto adeguato al duro impegno e nel nobile decoro, stabilisce connessioni che mitigano gli oscuri orizzonti del poeta.
Il paradosso del tempo si genera da una illudente scansione più sperata che reale, messa in atto nella ostinata ricerca di modelli e strumenti atti a decodificare in attimi un’essenza indivisibile. Ne deriva che tale paradosso vive di un’incoerente consecutio quasi che interrompesse misteriosamente il flusso in avanti nel ripetitivo ritorno di stagioni, di emozioni, di eventi, e prende forme già note che mai definiscono però la sostanza, leggibile soltanto nelle sue espressioni devastanti, al punto che lo sguardo di chi nascerà in futuro

                non vedrà mai l’orma
di mille vite fragili e deserte.

Il ciclo è simbolo e riferimento del tempo, quanto meno come scansione leggibile di un processo universale denso di parametri che esulano dalle conoscenze dell’uomo. Forse anche per questo ogni strumento di misura, e in maggiore parte in quelli che detengono un suono ritmico, genera nel poeta grande inquietudine come se nelle sfere o nel succedersi dei numeri il tempo accelerasse il suo avvicendarsi. A sua volta il moto è estrinsecazione del ciclo nei fenomeni della natura, tra le rapide del “panta rei”, nell’apparente immobilità delle stelle e anche nelle teorie umane che sembrerebbero svelare il senso dell’immortalità nel postulato di una continua trasformazione in cui la materia non si disperde, ma cambia semplicemente il suo stato.
Questo ampio, significativo bordone sorregge una melodia composita, modulare spettro di osservazione che traduce la narrazione della propria vita attraverso le vicende interne ed esterne, analisi di una sensibilità umana, artistica, spirituale non comune. Dai vertici della poesia, modelli di bellezza e di purezza senza pari, ad un devastante smarrimento di canoni di riferimento nell’arte come nella cultura, agli abbandoni della natura nelle sue affascinanti espressioni, approdo precario, in acque trasparenti, al desolante, impetuoso coinvolgimento dell’ineffabile ultimo viaggio di quanti condivisero sentimenti ed emozioni. Fino al devastante momento che più di ogni altro compromette definitivamente ogni possibile meditazione. Nella trasfigurazione immanente di un fiore, il garofano, l’immagine in filigrana della mamma, animo nobile

                                     che viveva
di tormentato spirito ritroso

nelle variegate accensioni delle corolle, unica, elementare espressione d’arte nelle tratte-nute anse di una vocalità inespressa.
Appena sussurri per le verdi alture di faggi che proiettano lo sguardo verso il massiccio del Sirente riferimento assoluto di una vallata sorprendente, alma mater, ricordo primo di esistenza. L’assenza di clamore giustifica un sentire intimo, un rapporto segreto, un dialogo privato tra la sua terra d’origine e la scoperta futura. Questa intimità si sublima nella meraviglia di altri versi con l’immagine iniziale di una luna spezzata in frammenti di luce come per rendere ancora più splendente, nella vallata ancora vergine di luminosi disturbi, il fermento universale.
Si affollano luoghi, particolari, singoli ritorni nelle regioni emotive del poeta e ogni elemento contiene, nell’insieme vocale, accenti concreti, coerenti con i termini di una filosofia esistenziale che affianca il dramma dell’esserci al costante contatto con un quotidiano altalenante, frangibile ad ogni più lieve, ingannevole insidia. Ciascun aspetto muove sempre dagli stessi presupposti e converge in una consolidata affermazione sull’incapacità dell’uomo di reggere ai costanti conflitti con la sua indole e con i limiti imposti dalla sua incommensurabile incapacità nei confronti dell’immenso. L’illusione dilaga anche nelle teorie e nelle riflessioni che invadono il processo culturale come estrinsecazione di modelli formali e sostanziali in caduta libera, come analisi della perdita degli antichi valori e anche come testimonianze affettive del transito terreno. La mitologia del denaro provoca danni irreparabili non meno degli entusiasmi per

il verbo della scienza dominante
che dà rimedio ad ogni aspirazione,
schernendo l’assoluto delirante… 

L’insana fede per un movimento che toglie all’illusione anche lo spiraglio del sogno e allo stesso tempo celebra la scienza come possibile soluzione di ogni male, trova corrispondenza nel dogma che riconduce tutto alla centralità dell’utile, unico parametro di riferimento della cultura, dell’arte e di ogni altra manifestazione del sapere. E questa realtà propone una tale distorsione che non solo la cultura ma perfino il linguaggio si sottraggono alla loro elementare ‘grammatica’. Il grido insopportabile dell’ignoranza determina l’impossibilità dell’ascolto e non permette alcun rapporto dialettico; quel grido insomma è destinato

alla folla demente ed al concerto
che nella notte e nel delirio allaccia.

Il tono più composto, che è proprio dei pochi cui l’intelletto ancora dà l’accesso, si sostanzia in una presenza costante che mai impone postulati ma che, nel rispetto dell’individuo, propone analisi, riflessioni, riascolti orientati verso una più coerente lettura delle proprie esperienze. Questo registro ‘non violento’ sovrintende la distesa limpida del verso in particolar modo nei richiami letterari, negli inevitabili abbandoni di emozionali colonne portanti, nelle insenature di un trascorso denso di malinconie metabolizzate come evento, non già come adesione. La mirabile traduzione di due sonetti di Shakespeare, oltre a dare la cifra interpretativa dell’omaggio al sommo poeta e drammaturgo, investe la misura di un equilibrio sensibile e strutturale dell’espressione lirica in cui la forma, assente di grida e di impetuosi accenti, accosta le vette dell’arte.

                                         … Love is not love
Which alters when it alteration finds

                                         … Non è amore
l’amor che muti per mutati accenti

Questo tracciato estetico di autentica bellezza segue un virtuale percorso che mantiene intatti i presupposti e inalterati gli esiti nel cogliere il respiro di vocalità altre ma compenetranti sensi uguali dello spirito in altissima corrispondenza. L’affinità elettiva con Leopardi, ancor più che nei versi dedicati al grande poeta di Recanati e nella sua presenza che aleggia in ogni dove, torna prepotente nelle quartine e nelle terzine de Il tempo amaro e ancor meglio in quelle de L’ombra e l’incanto. Nel primo sonetto l’impetuoso sfogo contro la sorte crudele dell’uomo contiene gradazioni decisamente più aggressive di quelle dello stesso Leopardi, nella considerazione chiaramente espressa in A Giacomo Leopardi, come di una consapevolezza soltanto avvertita, non avendo egli conosciuto il tempo più tragico

Non sapesti però com’è dissolto
il giorno che per ultimo sussulta.

Nel secondo sonetto, di rasserenante armonia, affresco pregevole nei dettagli come negli sfumati, la lezione stilistica ed emotiva è perfettamente assimilata:

Ode settembre il verso del pollaio
nel raggio basso e lento, e sulla via
sbiadita del nostalgico brumaio,

L’attacco sinfonico libera energie che recuperano sonorità parallele nel supporto di eloquenti analogie. La stagione inconsapevole e serena è molto più che semplice sintonia della stagion lieta leopardiana; così come quando correva il tempo del telaio palesemente riconduce alle emozioni e ai luoghi del canto ‘A Silvia’: ed alla man veloce / che percorrea la faticosa tela. Serenità… apparenze. Forse. False modulazioni… può essere. O semplice-mente Arte. In tale percorso, imponente si staglia la figura di Dante, Maestro e riferi-mento, traccia sempre presente fin dai primi studi, artefice di un verso perfetto, l’endeca-sillabo, sul quale il giovane Amato inizierà un lungo lavoro di acquisizione che lo condurrà, grazie anche ad una propria, particolare attitudine, a rendere le undici sillabe capolavoro di genere.
Ancora più intimistiche e serene negli accenti le poesie della silloge che si raccolgono in una meditazione più o meno dinamica. Il liceo, fonte battesimale dell’origine e delle scoperte della gioventù; il Ligustro, compagno dei tempi spensierati, quasi tangibile protezione di bucolici richiami, del lentus in umbra, nella calda estate dell’esame; e il suo studio, rifugio e fucina, turris eburnea di un’indole possibilmente solitaria; frammenti di libri, di arredi, di una poltrona antica, ormai vuota, echi di rumori lontani, e il tempo cristallizzato in queste icone, compagne di un vivere irrisolto fatto di sentimenti intensi, di pensieri verso un sogno sempre sconfinato, di parole come biade.
Quando tutto sembra orientato, improvvisi, indefinibili prendono forma e contenuto versi che hanno una valenza eterogenea di particolare interesse non solo per l’approccio al tema, quanto anche per l’inaspettata considerazione. Il corso d’acqua attraversa i campi fertili del senso religioso. Due aspetti di natura diversa dominano la sostanza dell’argomento: il richiamo ad esperienze giovanili (l’Avvento, l’Ufficio delle tenebre) e l’inatteso canto del Magnificat. Il primo si attesta nella sintesi del Presepe, nel richiamo di campane che nel rinnovarsi di anno in anno, tratteneva gli iniziali aspetti positivi del ciclo e nello stesso tempo riponeva nel racconto tratti di una favola millenaria di un mondo oggi solamente attento ai

                        … rintocchi di vetrine,
di stanchi doni e di profani canti.

La liturgia del Mercoledì santo conteneva l’attonito disorientamento di un’azione teatrale in cui le simbologie dirigevano la fantasia del ragazzo in un contesto di drammatico procedere fino all’inquietante epilogo, nel buio della cattedrale, in ansia di mistero. E tra le sapienti allegorie che solcano le paure, affiorano movimenti speculativi di innegabile presenza. Ma è nel Magnificat che convergono e prendono consistenza gli aleggianti respiri di un’urgenza religiosa sui generis che esula da un sistema dogmatico, per aprire ad una ricerca che si riconosca ne

l’unico senso vero che corregge.

Sottende questo poderoso insieme un fattore lirico di intensa efficacia emotiva che non recupera stati di serenità, ma genera tensione creativa nell’ampiezza di soluzioni e di rimandi insiti nelle sue immense risorse. Dove ti aspetteresti un costante impiego di tonalità di più consoni accordi minori, il modo maggiore apre a sofisticati corali che accentuano paradossalmente, soprattutto nel pianissimo, l’inadeguatezza del confronto con la misura del tempo mai sconfitto … fino al segno deluso delle cose. E nella magistrale allitterazione il dramma si fa composta malinconia.
L’assoluto controllo delle strutture del genere, assieme ad una grande sensibilità musicale, forgia un’estetica composita che riconduce certamente alla finezza della classicità greca nella creazione di un’architettura che definisce metope di marmo pregiato entro triglifi di perfetta compostezza. Architravi che tuttavia orientano un percorso singolare che nell’evoluzione del bello e dell’armonia, attraversa nei secoli voci di respiro universale da Petrarca a Shakespeare, da Dante a Foscolo, da Leopardi a Neruda. Dunque non una cristallizzazione di modelli e di elementi dovuta alla rivelazione di un’archeologia poetica che vive l’immobilità della sua straordinaria testimonianza. L’itinerario è coerente, limpido, attraversa con misurato equilibrio spazio e tempo dell’arte, traducendo semantiche e metafore, stilemi e costrutti in un linguaggio contemporaneo, sicuramente fuori dalle mode, ma certamente adeguato alle esigenze della modernità.
Il segmento intellettuale non esula dalla temperie di una poetica chiaramente affrescata, anche se la sapienza culturale del poeta riesce a discernere, in questo sottoinsieme, la valenza delle stratificazioni. Le quali tratteggiano sfumature nel cammino desolante, di selci deformate dove le nebbie non lasciano mai pienamente le colline esuberanti di vegetazione, tra le nostalgie e le illusioni, gli inganni del tempo e del quotidiano incedere. E il tramonto annunciato verso l’ultimo atto di un misterioso, inspiegabile annullamento, spegne i residui, tenui bagliori della speranza, per la verità mai coltivata nei terreni fertili della vita. Pure, questa tensione insostenibile genera ad un tempo una fuga dall’ineluttabile aprendo ad un estremo spiraglio di fede, ancorché laica, che pone la religione della parola come unica possibilità di superamento dell’impasse. La voce alta della poesia trascende il tempo e lascia integri i termini del pensiero, unica luce di conoscenza nel viaggio impervio dell’uomo.

Sandro Bernabei

Prefazione segnalata al XX Premio Nazionale Città di Forlì 2023

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La raccolta “Nel segno che l’artefice ha pensato”, impeccabile nella forma e imperitura nel contenuto, si configura come mirabile fusione di tematiche eraclitee ed oraziane, accenti tassiani, tonalità petrarchesche, visioni dantesche, cromatismi pascoliani, abissi ungarettiani, concezioni montaliane e meditazioni leopardiane. Nel Bernabei l’arte trascende lo spazio ed il tempo e si cristallizza nella perfezione che vince la morte e attinge la vita eterna.

Professor Massimo Bandini

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Per voi poeti d’Italia, lo Strega Poesia
(ma le vette del Sublime possono attendere) 

MARIAROSA MANCUSO, 23 MAR 2023

https://www.ilfoglio.it/cultura/2023/03/23/news/per-voi-poeti-d-italia-lo-strega-poesia-ma-le-vette-del-sublime-possono-attendere–5092589/
(consultato nel mese di dicembre 2023)

Centoventi scrittori viventi, pubblicati da case editrici
a diffusione nazionale.
Una gara letteraria di cui non sentivamo il bisogno


Anche i poeti hanno diritto a un sorso di Strega
. Ingiusto riservarlo solo ai prosatori: si sa che è la Poesia a sfiorare le vette del Sublime. La Poesia negletta, trascurata, a volte irrisa, eppure tanto praticata nelle camerette – un tempo si cominciava da adolescenti ai primi amori e brufoli, ora la fascia di età sembra essersi un pochino alzata.
La timida poesia che in Italia ha vita grama, soffocata dai pregiudizi. Per esempio, che siano più numerosi i poeti che lettori di poesia. Per esempio, che se ogni aspirante poeta comprasse ogni anno il libro di un altro poeta, i conti del settore ne godrebbero. Se poi – delirio d’ipotesi – ogni aspirante poeta comprasse ogni anno dieci libri, facciamo dieci poeti affermati o addirittura classici, e li leggesse, ecco che il tempo per scrivere versi (significa soprattutto riscrivere, chiedete ai colleghi più esperti) si ridurrebbe molto. Dicono le cifre che nel 2022 i titoli di poesia pubblicati sono aumentati del 20 per cento – non c’è speranza di trasformare i poeti in avidi lettori.
E dunque, via libera al Premio Strega Poesia. Riflessione sulle cose ultime, canto, balsamo per le anime rinsecchite: così si esprime il bando di concorso. Pietosi e veloci, non vedevano l’ora di guarire la nostra aridità, hanno risposto all’appello in 120 – solo poeti viventi, pubblicati da case editrici a diffusione nazionale, con codice Ibsn. Niente miscellanee. Niente autopubblicazioni, né edizioni solo digitali.
Sono 120 i titoli emersi. Ognuno di noi, a seconda della fiducia riposta nella creatività altrui, immaginerà il sommerso. 120 titoli proposti dagli editori, a cui si sono aggiunti, come da regolamento, 15 titoli “richiesti” dal comitato scientifico. Che è composto da 12 membri, e pensandoci un po’ su potremmo perfino capire chi ha proposto cosa.
In Italia non si possono fare i premi letterari perché ci conosciamo tutti, si usa dire. Basta scorrere i nomi dei 135 aspiranti al premio per capire che la poesia è più democratica. Poeti mai sentiti nominare presentati da case editrici mai sentite nominare. Titoli come “Sacchi di sale marino” presentati da un editore che ha scelto di chiamarsi “L’inedito”. Ma con che cuore può chiedere a un poeta (una poeta se credete nelle Differenze) di avere in affidamento le preziose parole che dovrebbero illuminare il mondo?
“Fra le pieghe del rosso” è presentato da “I quaderni del Bardo”, editore che ospita sul sito le opinioni di chi è rimasto soddisfatto del servizio: “Un baluardo di competenza e efficienza e cura, un servizio certosino di supporto all’autore”. “Nel segno che l’artefice ha pensato” è un altro titolo candidato, proposto da Valentina Editrice: artefice è minuscolo, forse è solo “il miglior fabbro” che ha provveduto all’editing.
Ogni tanto, con sollievo, ci imbattiamo in un nome conosciuto, come Fernando Camon, Umberto Fiori, Aldo Nove o Francesco Targhetta, che aveva scritto un bel romanzo in versi intitolato “Perché veniamo bene nelle fotografie” e ora partecipa con “La colpa al capitalismo”. Ma lo Strega Poesia andrà più facilmente a “La signorina nessuno” (titolo della poeta Giorgia Soleri). Oppure vincerà “Ascoltavo il mare piangere con me”. Un altro titolo dice “Cucivo le stelle”, e abbiamo scovato infiltrato che concorre con “Peste e guerra – La poesia non salverà la vita”.
Il listone dei candidati è stato presentato il 21 marzo, giornata della poesia, con letture e live painting. Ora comincia il lavoro vero: scegliere i 5 finalisti da annunciare il 19 maggio al Salone del Libro di Torino e sottoporre all’onorevole giuria. Premiazione il 5 ottobre al Tempio di Venere, parco archeologico del Colosseo.

Mariarosa Mancuso

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NON NE SO NIENTE MA TE LO DICO
come S-parlare di ciò che non si sa
22 dicembre 2023 

Alcuni giorni fa, navigando in Internet, m’imbatto casualmente nell’articolo de “Il Foglio”, su riportato, risalente a circa nove mesi fa. Leggo con attenzione, con crescente disagio e lievitante ribellione interiore per la scrittura supponente, ed a tratti derisoria, di Mariarosa Mancuso. Compilatrice che, mentre denuncia accettabilmente un panorama che prolifera in modo inarrestabile di “secredenti” e “sfruttati” poeti, fa, come si suol dire, di tutta l’erba un fascio, puntando contro opere ed autori sconosciuti nel suo pungente, anche se malcelato, sarcasmo. Senza tacere lo scriteriato presupposto da cui la Mancuso muove, ovvero quello di avallare “personaggi” e relativi prodotti che hanno conquistato visibilità, ma il cui valore è quasi sempre legato alle logiche del mercato, e di schernire alla cieca editori, opere ed autori “mai sentiti nominare”! Cervello e criterio davvero encomiabili per il “parlar ignorando” e per il non capire che oggi il sommerso, sia pure in ristrettissimo numero di casi, nasconde probabilmente il meglio che la genuina arte letteraria offre, violentato e condannato all’oscurità dagli urlatori delle fiere e dalla sprovvedutezza di chi affolla i loro banchi. Raffinato cerebrum che dà il meglio di sé quando sbeffeggia la parola artefice del titolo, scritta “con la minuscola”, a corto evidentemente di nozioni etimologiche e, di conseguenza, indotto a pensare ad un fabbro, ad un editore maniscalco, piuttosto che all’ “artefice di versi” (Devoto e Treccani docent), come miglior cervello avrebbe fatto!
…..La facile e rozza ironia esibita porta infine la signora Mancuso a prevedere che lo Strega Poesia sarà vinto da titoli e da autori dei quali sceglie i nomi più adatti a permetterle il sollazzo beffardo per caratteristiche non ritenute all’altezza dalla sua scricchiolante cattedra, alla luce dell’assunto “non so niente, ma te lo dico” e disconoscendo – di proposito o per inammissibile ingenuità? – che sarà qualcuno dei soliti Editori NOTI a prevalere, magari con qualche mediocre raccolta di prosa dalla stesura verticale e senza connotati di vera POESIA.
…..La trionfatrice Vivian Lamarque (Mondadori) avrebbe premiato questa più logica previsione, nonostante l’indecente infantilismo dei suoi componimenti.

…..La mia repressa ira non poteva non dare sbocco alla recriminazione. Sicché, letto l’articolo, ho inviato al direttore del “noto” quotidiano, Claudio Cerasa, ed alla cortese giornalista, il documento che pubblico di seguito, con poca fiducia di poter ricevere un qualche riscontro.

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Per voi poeti d’Italia, lo Strega Poesia

di Mariarosa Mancuso (Il Foglio, 23/03/23)
link

Alla giornalista Mariarosa Mancuso
e per conoscenza al direttore del quotidiano Il Foglio
dottor Claudio Cerasa

Cominciamo con il dire, alla firma storica de “Il Foglio”, usurata probabilmente dal tempo e dalla routine, Mariarosa Mancuso, che il codice che identifica il titolo di un libro o la sua edizione, è ISBN (International Standard Book Number), non IBSN, come lei scrive, per deprecabile fretta o per giustificabile disgrafia…
…..In secondo luogo, entrando in medias res, le facciamo notare che i nomi “mai sentiti” e le case editrici “mai sentite”, non sono immeritevoli di considerazione solo per il fatto di essere sconosciuti o ignorati, mentre tanti autori conosciuti e troppe case editrici ben note sono palesemente indegni per la scarsa qualità che li contraddistingue e per la sfacciata adesione al contemporaneo “mercato perenne” ed al suo ininterrotto vociare da bancarelle di paccottiglia.
…..Che sensibilità esprime chi “con sollievo” si imbatte in un nome conosciuto, come magari quello riportato di Aldo Nove, e ironizza senza cognizione di causa sulla “sconosciuta” Valentina Editrice e sul titolo del libro che questa presenta allo Strega “Nel segno che l’artefice ha pensato”, grossolanamente interpretato con voce ignorante? Sì, “ignorante”, perché si può essere sicuri che l’autrice del supponente articolo di puro costume, cui ci riferiamo, NON HA SFOGLIATO UNA SOLA PAGINA del volume al quale allude, e che dunque “ignora” del tutto. Diversamente si sarebbe resa conto che fra i 101 impeccabili sonetti (leggerli per credere) di Amato Maria Bernabei (estensore della presente), scritti in onore di Shakespeare, e il farraginoso affastellamento degli innumerevoli “stonetti” di Aldo Nove, verseggiatore che presume solo in base alla quantità di aver superato Petrarca, c’è veramente un abisso!
…..Che poi una “firma storica” de Il Foglio non conosca l’autore del poema epico-drammatico Mythos (10.000 versi in terzine dantesche), pubblicato dalla Marsilio nel 2006 e per il quale Giorgio Bàrberi Squarotti ebbe a scrivere di suo pugno «la grandiosità di Mythos non ha pari», rilevando anche la perfezione delle terzine incatenate, dipende solo dal suo dubbio bagaglio di conoscenze [1], come dalla convinzione, facilmente deducibile da quello che “scrive”, che lo spessore dell’arte discende (e non faccio uso del congiuntivo “discenda” perché parlo di realtà, di certezza, non di eventualità) più dalla visibilità dei prodotti che dalla loro sostanza.

     È per questo genere di convincimenti che il Premio Strega Poesia è stato assegnato a Vivian Lamarque (Mondadori, naturalmente), non certo per le decine di componimenti da asilo infantile che la sua silloge presenta. Esemplare quello che sùbito riporto:

Poesie ferroviarie

C’è una stazione
e c’è un orario
torna ti prego
leggi l’orario!

Ma forse ancor più significativo è quello seguente:

Filastrocca della gallina
ai 7 cuginetti dietro al cancello

Tanti tanti anni fa
lo zio Umberto e la zia Tina
avevano una gallina
(al singolare per far rima).
Trovare le loro tiepide uova                (zii che facevano uova?…)
oggi qua domani là
era la sua                                                 (sua? di chi?)
estiva felicità.
Oggi, quando lascia                               (chi è che lascia?)
una poesia qua e domani
là, che sia lei
quella dispersiva gallina
dello zio Umberto
e della zia Tina?

     Versi di grandissimo spessore (e dalla grammatica straordinaria, ma solo per la pura asineria da ridere o da piangere…) che danno evidentemente un “gran sollievo”, in quanto scritti da una conosciutissima, celebre “penna” (come in senso figurato si diceva una volta).
…..Risparmi dunque le facili e sprovvedute ironie da saputona, perfino offensive nei confronti di un serio, benché piccolo, editore, gentile signora Mancuso, e riservi l’epiteto alquanto sarcastico di “miglior fabbro” ai “ferracavalli” dall’illustre marchio che pubblicano legature scandalose spacciate per capolavori. E soprattutto, se può, eviti le voci anglofone e dica in buon italiano magari ‘revisione redazionale’ in luogo di editing.
…..Infine, gentile signora Mancuso, legga i libri prima di parlarne: chi cammina ad occhi bendati facilmente sbatte!

Amato Maria Bernabei

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[1] Bagaglio che naturalmente non include il Premio torinese “I Murazzi 2022” per la poesia edita, vinto con la silloge Il vetro di Narciso, pubblicato dalla Valentina Editrice di Padova, la cui prefazione di Stefano Valentini (l’Editore) meritò la vittoria nella XVIII edizione del Premio Nazionale Città di Forlì 2021.

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BREVE AUDIOSILLOGE (in fieri)

001 > Proemio: Il Sonetto                                  testo
002 > Il fiore nuovo                                              testo
003 > Nostalgia 1                                                   testo
004 > Tempo 1                                                        testo
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