“Bisogna studiare di più, ricominciare a studiare, capire meglio: Essi (Mozart, Beethoven, Wagner, Verdi) non hanno scritto musica per far fare buona figura a me. Sono io che devo far fare buona figura a loro, rivelandoli come sono, avvicinando me e l’orchestra a loro, più che posso, che non ci passi un filo d’aria!” (Arturo Toscanini).
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A trent’anni dalla sua scomparsa, alle quattro di pomeriggio del 20 Aprile 1986 nella Sala Grande del Conservatorio di Musica di Mosca, un’ovazione accolse l’ingresso sul palcoscenico di un’esile figura di vecchio; l’intensa emozione dei presenti l’accompagnò al pianoforte.
Egli “suonò con grande finezza e grande energia, – scrisse Charles Kuralt del CBS News – presentando al pubblico arcobaleni sonori color pastello e violenti uragani”. Vladimir Horowitz, uno dei più grandi pianisti del nostro secolo, era tornato a suonare dopo 60 anni nella sua terra d’origine.
L’11 Maggio di quarant’anni prima, “in una serata che fu commossa apoteosi” (Mario Labroca), sul palcoscenico del Teatro alla Scala di Milano, un altro grande vecchio affidava alla musica il suo messaggio di umanità, di arte, di pace.
Dopo 16 anni di assenza dall’Italia, Arturo Toscanini era salito di nuovo sul podio che egli stesso aveva reso il più prestigioso teatro del mondo. Due episodi simili per elementi simbolici, per contenuti sensibili; quasi un passaggio di testimone. Circostanze, presupposti, tempi diversi, è vero; tuttavia un comune denominatore ideale univa di nuovo questi due grandi musicisti del nostro tempo: l’amore per la musica, come suprema conquista esistenziale. Già uniti da profonda stima e rispetto, divenuti anche parenti dopo il matrimonio della figlia di Toscanini con il pianista russo, insieme avevano raggiunto ‘intese miracolose’ in alcuni concerti per pianoforte e orchestra; forse perché la fedeltà di Toscanini al testo coincideva in Horowitz con la totale disponibilità della sua straordinaria tecnica “al servizio dell’autore”. Fatalmente dunque il concerto di Horowitz di quella tiepida domenica di primavera evocava la figura del maestro italiano.
Arturo Toscanini non aveva studiato direzione d’orchestra; un caso assolutamente fortuito aveva rivelato al giovane violoncellista la sua vera vocazione. Eppure egli consegnò alle generazioni future una grande scuola di direzione d’orchestra non intesa come arido, sistematico pedagogismo o pedante insegnamento tecnico e di gesti.
Toscanini affidò alla storia il suo istinto, la sua coscienza, il suo intuito e insomma il suo genio. Alla cattedra sostituì la sua vita come testimonianza di una grande statura morale, di assoluta fede nelle proprie scelte, di determinazione, di incorruttibilità. La proposta che A. Della Corte fece al Governo nel ’45 “di offrire a Toscanini una cattedra precisamente di filologia e interpretazione musicale, quindi di esecuzione, cioè concertazione e direzione” aveva senz’altro una sua fondatezza; tuttavia la perentoria affermazione del maestro parmense dà l’esatta dimensione del suo pensiero: “Dovrei forse insegnare a tenere la bacchetta in mano? O si intende invece qualcosa di molto più importante e concreto? Ma allora ne ho fatta di scuola! Sono il più vecchio direttore del mondo. E tutti i nomi dei direttori italiani oggi più noti e molti stranieri li ho avuti con me, vicino a me, per anni e anni”. La vera scuola per Toscanini è dunque trasmissione viva, epidermica: è vibrazione intima che puoi assorbire solo nel momento dell’accadimento artistico in cui il maestro estrinseca travagli interiori che si generano e si realizzano attraverso una visione critica, estetica e filologica.
Questo travaglio è frutto di continua ricerca, che è poi anelito esistenziale. Ricerca senza tentennamenti: abbandonarsi un solo istante ad allettanti insidie significa stilizzare la ricerca stessa, renderla insignificante. E questa fu la realtà dell’interpretazione toscaniniana. Chi vuole sminuire tale spessore interpretativo e culturale, deve fare i conti con la storia. Qualche illustre critico ha rimproverato di recente a Toscanini la sua scarsa cultura come mancanza o impossibilità di recepire, all’interno delle note, humus intellettuali ricchi di paradigmi esistenziali e metafisici o di implicazioni psicologiche e filosofiche.
La lezione di Toscanini sta proprio antiteticamente nella semplicità e nell’umiltà di porsi di fronte all’opera d’arte con animo sereno, immune da contaminazioni, nella certezza che la pagina musicale non nasconda la ricerca di terre promesse, ma esemplifichi, a coloro che sanno leggere, un universo compiuto. “Perché andare a cercare quello che non c’è sotto la pagina? -aveva detto una volta Toscanini a Salisburgo- sulla pagina c’è già tutto, le intenzioni non sono mai segrete, ma sempre chiaramente espresse nella scrittura … “. Fedeltà al testo è dunque fedeltà all’autore, aderenza all’opera, rispetto della persona.
Interpretare non vuol dire stravolgere i contenuti, adattare il testo a proprie esigenze alterando nella forma e nella sostanza la creazione artistica. Prendiamo a verifica quanto Heinrich Strobel disse a proposito del rapporto di Toscanini con le pagine di Beethoven: “Egli spazzava via con la sua immensa forza e con la fedeltà delle sue interpretazioni tutta quella falsa filosofia, tutte quelle false attribuzioni poetiche e letterarie. Come sempre anche di Beethoven eseguiva soltanto la musica”.
Una testimonianza emblematica di quanto Toscanini fosse nel veroè rappresentata dall’enorme successo ottenuto a Bayreuth, “roccaforte della tradizione wagneriana”, dove era stato invitato non senza timore che il “suo temperamento latino avrebbe forse addirittura alterato la fisionomia delle rappresentazioni. Toscanini … con l’umiltà e la dedizione che gli erano proprie … affrontò il mondo della tradizione quasi religiosa senza tradire se stesso”. (Mario Labroca) Schmidt-Isserstedt, direttore d’orchestra tedesco, dopo aver ascoltato il “Tristano” diretto da Toscanini, scrisse: “Il preludio fu molto bello … Poi venne il secondo atto: un altro mondo. Così bello non l’ho più risentito …; poi venne il terzo atto, grandioso, estatico e completamente libero”. Era il riconoscimento della validità di un atteggiamento intransigente, eppure cristallino, di una condotta irreprensibile e appunto per questo disciplinata e disciplinante; di una energia gravida di apporti culturali. Toscanini pose termine a tutta una serie di pregiudizi, di malcostumi imperanti, di approssimazioni. La sua intransigenza, confusa spesso con scarsa disponibilità, era dettata dalla consapevolezza di essere solo contro tutti, almeno all’inizio. Ma non si piegò mai a compromessi a costo di sfiorare l’impopolarità per ricondurre l’opera alle sue dimensioni di stile e di correttezza”. (Carlo Franci) Fu severo con tutti i collaboratori, perché lo fu prima di tutto con se stesso; ma chi lo conobbe parla di un’umanità non comune. “Toscanini insegnava combattendo contro la gravità della materia, contro la pigrizia e il pressappochismo, contro le false tradizioni, contro la tentazione, ch’è in tutti ma non era in lui, di risparmiare energia”. (Teodoro Celli) Antidivo, “antiinterprete”, Toscanini non assurge a mito, ma la sua lezione rimane un’eredità di cui dovremmo sentirci tutti responsabili. “Se qualche cosa non va è perché io non ho capito bene. Chi pensa che Mozart, Beethoven, Wagner, Verdi hanno sbagliato e sono da correggere è un imbecille. Bisogna studiare di più, ricominciare a studiare, capire meglio: Essi non hanno scritto musica per far fare buona figura a me. Sono io che devo far fare buona figura a loro, rivelandoli come sono, avvicinando me e l’orchestra a loro, più che posso, che non ci passi un filo d’aria!” (Arturo Toscanini).
Sandro Bernabei
Vedi pure: http://www.coraliunite.it/Appunti/La_lezione_di_Arturo_Toscanini.htm
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