Nell’anno di apertura del Congresso di Vienna, Rossini componeva Il Turco in Italia. Il riferimento, ancorché chiaramente privo di alcun tipo di relazione, esemplifica dialetticamente l’inarrestabile flusso del pensiero anche in presenza di consistenti tentativi di restaurazione politica e sociale; oltre a testimoniare che il genio opera in un sovrastrato che non solo elude transiti intermedi, ma riesce a mediare elementi eterogenei e centrifughi in organici enunciati che filtrano il passato e aprono al futuro.
Se il verbo illuminista piegava verso epigoni sempre meno credibili, il tratto classico dell’arte, pure attraverso rivolgimenti destabilizzanti, si apriva faticosamente a segmenti articolati di un movimento di grande respiro. Di questi fermenti l’opera di Rossini fu insieme traduzione e sintesi: la prima nel suo peculiare aspetto semantico, la seconda come convergenza di componenti divergenti e di stilemi desunti dal passato. E tutto nella libertà di un’adesione ante litteram al credo romantico, privato certo dello Sturm und Drang, ma forte di una lettura affatto originale che avrebbe disorientato la critica. Rossini non rinnegò il Romanticismo. Semplicemente lo piegò alle esigenze della sua indole, superandolo.
Anche per questi motivi l’equivoco e l’incomprensione accompagnarono per più di un secolo molte opere del compositore pesarese. E specialmente Il Turco in Italia. L’opera fu accolta con freddezza; i milanesi ne rimasero quasi offesi. Erano convinti di aver assistito ad una copia sbiadita de L’Italiana in Algeri, messa in scena a Venezia l’anno precedente. Evidentemente il pubblico del Teatro alla Scala aveva fermato l’attenzione ad una ironica inversione dei ruoli riscontrabile nel titolo. Era sfuggita del tutto la straordinaria raffinatezza di un’opera innovativa, che si distaccava dalla comicità ossessiva de L’italiana, per quanto incisiva ed energica, per approdare ad una più marcata ed ampia commedia di costume.
La prevalenza decisa dei pezzi d’assieme è testimonianza di scelte stilistiche congeniali all’idea, quasi elemento di ispirazione recuperabile da una realtà sfuggente meglio plasmabile negli sviluppi che, sulla scena, più presenze offrono; ma anche e oltre ricerca di una coralità in cui il personaggio perde la propria individualità ed entra in un intricato e intrigante gioco delle parti, espressione e transito del quotidiano gioco della vita. Nel quale l’intervento diretto dello stesso librettista nei panni del “Poeta”, rassicura e guida verso una verosimiglianza che è nucleo essenziale di aderenza a canoni estetici ed esistenziali. Anche se non del tutto originale, questa singolare invenzione di Felice Romani evolve nel costante procedere satirico della creazione artistica tra l’affermazione Un bel quadro farei tratto dal vero e la costante ricerca di situazioni e maschere da adattare alla sua personalissima ‘commedia dell’arte’.
L’individuazione dei caratteri acquista dimensione nel divenire del dramma che Rossini orienta verso sviluppi e soluzioni singolari, in cui comicità e stati d’animo coesistono in una dinamica che mai altera l’equilibrio delle tensioni, e che invece genera interni compositi stilisticamente attraenti. La conquista di libertà dallo schema, innanzitutto, evidente sia nella ricerca di una continuità di azione, ottenuta riducendo quasi al nulla gli stacchi da un numero all’altro, sia nell’intersecare i pezzi d’assieme in una interazione capace di pareggiare scenicamente il ‘crescendo’ orchestrale, come nella ‘stretta’ del finale del I atto tra impeti e silenzi strumentali, tra fortissimi e pianissimi, fragori e sommesse voci ‘a cappella’ (Quando sono rivali, rivali in amor); sia ancora alternando recitativi secchi a recitativi più articolati, accompagnati dall’orchestra. Sicché l’evidenza del particolare risponde al criterio unitario in cui le parti concorrono all’armonia del tutto e diventano ciascuna l’incarnazione di un astratto.
La definizione delle componenti formali si sostanzia già nella sinfonia, lineare nella struttura, singolare nell’adagio dove la freschezza del corno, protagonista assoluto, evoca, non soltanto per analogia, i concerti di Mozart; e ancora levigata e insieme leggera nell’allegro vivo che irrompe improvviso con l’agile danza degli archi. Il ritorno puntuale degli immutabili, consolidati modelli dell’opera buffa, accredita materia usuale, pur nel proporsi di situazioni nuove. Rossini ne contiene gli eccessi riducendo al minimo le arie, mentre accentua, in molteplici vibrazioni di insiemi, un continuo intreccio che partecipa comicità e verifica, satira e sentimento. Fraseggi di una sapiente scrittura musicale che si estrinseca in momenti di grande creazione artistica.
Nascono duetti pregevoli, come il confronto tra Geronio e Fiorilla in forma tripartita, con l’allegro che l’incalzare di scalette di semicrome, ora ascendenti ora discendenti, sembra accentuare la titubanza del marito e il sarcastico rispondere della donna la quale, nell’andantino, si fa suadente e dolce con delicati accenni virtuosistici, per chiudere, nell’allegro, con una ‘stretta’ incontenibile che sancisce la vittoria incondizionata della stessa Fiorilla. Non meno elegante e raffinato il duetto D’un bell’uso di Turchia all’inizio del II atto, anch’esso in forma tripartita, che Geronio e Selim sviluppano nella schermaglia tranquilla dell’allegro che attraverso una più decisa comicità della seconda sezione, più mosso, approda all’esilarante Ed invece di pagarla, in cui i protagonisti perdono la pazienza e si minacciano sulla sillabazione caratteristica dei ‘buffi’.
Nascono insiemi che nei vari accostamenti determinano varietà di tocco; sottili tratteggi e incalzanti aperture, melodie intense e simmetrie, e dislivelli che creano comicità, quando il senso della musica urta visibilmente con quello dell’azione. Aspetti di una tensione che è arte e idea, anticipazione dei futuri capolavori, come nel quintetto della mascherata Oh, guardate che accidente, autentico vertice dell’opera. Rossini costruisce magistralmente un gioco di indeterminatezza, dallo stupore iniziale di Geronio, che gli archi accentuano nel riflessivo silenzio, al lento svilupparsi di una alienante quanto angosciosa scoperta di una situazione del tutto insolita. I personaggi non si riconoscono più, e ogni tentativo di recupero si perde tra i brontolii di Geronio e il compiacimento degli innamorati vaganti su un quartetto di superba architettura vocale senza accompagnamento.
L’avvertita necessità di un equilibrio reciproco tra la misura strumentale e quella vocale, già prepotente ne L’Italiana in Algeri, acquista con Il Turco in Italia consapevolezza e dimensione; l’orchestra abbandona l’arida quiete del supporto e scopre l’agile libertà della voce, le variabili composite, le inusuali possibilità; mentre nel contempo le voci assorbono connotazioni affini agli strumenti, ne sottendono affinità strutturali. Proposta essenziale che prepara il capolavoro. Nel quale ogni attenta considerazione naufraga in presenza di un’arte che coniuga assoluto e contingente in un ambito di purezza formale.
Sandro Bernabei
*
To prove that you're not a bot, enter this code