Un’analisi comparata dei due miti greci di Narciso e di Pigmalione, alla luce del pensiero espresso nel poema mitologico Mythos, che nelle due figure scorge le facce di un’unica realtà: l’incapacità umana di amare.
Narciso e Pigmalione
L’amore di sé, in sé o nell’altro da sé, con il suo fuoco e le sue due facce, sagoma la medaglia dell’incapacità di amare.
Menestrello
Come Narciso in sé, nel sé straniero
volge i sensi la mano che modella,
che dello stesso affetto è un emisfero. 30
L’immagine di sé che vede bella
alla passione sterile condanna
di più l’uno, che l’altro non suggella 33
per l’opinione debole o tiranna,
o la legge mutevole che prende
quando non cede, ma comunque inganna. 36
“Narciso ama se stesso dentro se stesso, Pigmalióne si ama nella proiezione di sé: quindi la mano che modella, lo scultore, per quanto si rivolga a se stesso nel sé straniero, nel sé che ricompone al di fuori di sé, esprime un emisfero dello stesso genere di affetto (metà di un’unica sfera narcisistica).
L’immagine di se stessi, che Narciso e Pigmalione vedono bella, condanna l’uno e l’altro alla sterile passione di amarsi: il primo più del secondo, che la passione non chiude in se stesso (non suggella), ma proietta all’esterno, nella statua femminile di avorio che crea a propria immagine e somiglianza, ed immune dalla corruzione, per la fiacca, infondata credenza della natura dissoluta di tutte le donne (offensus vitiis quae plurima menti / femineae natura dedit: Ovidio, Metamorfosi, X, vv. 244-245), convinzione “tirannica” nei confronti di chi la nutre e di chi ne è oggetto, o per la legge egoistica che quando “non cede”, cioè quando tiene per sé, prende (sarcasticamente si allude all’egoismo che “se non prende, prende…”, che prende dunque in ogni caso, risultando però sempre ingannevole e dannoso – ma comunque inganna, si ritorce contro l’egoista-”. Amato Maria Bernabei, Mythos, Il mito di Pigmalione, Marsilio Editori, Venezia, 2006, p. 472, vv. 28-36).
Si fa notare che il disprezzo della figura femminile, riassunto nella formula della dissolutezza muliebre, cui la statua d’avorio si sottrae, esente dalla contaminazione, è l’elemento che si aggiunge, nel mito dello scultore, come stereotipo dell’umanità di sempre; disprezzo che, per quanto presente in Narciso, ha però tutt’altra connotazione: la svalutazione narcisistica dell’altro non trova ragioni nell’altrui difetto, ma nell’inestimabile, inarrivabile pregio del sé.
Gabbiano
Scolpì l’avorio e gli diede fattezza
che nessun’altra immagine nascesse
bella così, che si ammalò di ebbrezza 3
per il candido sale, come avesse
vita, ma solo quella che rispecchia
l’amore come all’anima piacesse. 6
Menestrello
Richiama alla memoria, che sonnecchia,
lungo la riva un cenno ridibondo
quella che mai non nacque e non invecchia. 9
E non c’è grido al quale non rispondo
quando è la mente stessa che si sveglia
se il tratto vuole il cerchio e non è tondo. 12
“Sculpsit ebur, formamque dedit, qua femina nasci / nulla potest (Ovidio, Metamorfosi, X, vv. 248-249); Pigmalione scolpì una statua femminile di avorio, e la fece così bella che mai nessuna donna le potesse essere paragonata.
L’opera d’arte era così meravigliosa che l’artista si ammalò di ebbrezza / per il candido sale, divenne “ubriaco” d’amore per quella forma d’avorio (oltre al carbonato di calcio, l’avorio contiene fosfato tricalcico e fosfato di magnesio, che sono sali) come se fosse vera, se avesse veramente vita, ma solo nella misura in cui rispondesse all’idea astratta dello scultore (solo quella che rispecchia / l’amore come all’anima piacesse, l’oggetto d’amore che incarni l’immagine della donna che Pigmalione accarezzava, il solo che potesse piacergli).
Il Menestrello (che è seduto in riva al mare) sembra essersi dimenticato di un mito significativo, quello di Pigmalione e Galatea (quella che mai non nacque e non invecchia, perché risponde ad un’idea di donna che non può avverarsi e quindi nemmeno invecchiare); un gabbiano, stridendo, glielo ricorda (Larus ridibundus – schiamazzante – è il nome latino del gabbiano). Non posso certo sottrarmi, dice il Menestrello, quando un “grido” è quello stesso della mente, dell’anima che si accorge di una dimenticanza che potrebbe incrinare la perfetta rotondità del cerchio che intende costruire (se il tratto vuole il cerchio e non è tondo, se il segmento di circonferenza che viene percorso, paradossalmente non è curvo”; Amato Maria Bernabei, Mythos, Il mito di Pigmalione, Marsilio Editori, Venezia, 2006, p. 471, vv. 1-12).
Il mito di Pigmalione, mentre coglie l’incapacità umana, se non di vivere l’alterità, almeno di accettarla come tale, sembra annunciare ante litteram l’assunto fondamentale della Programmazione Neurolinguistica (PNL): “La mappa non è il territorio”, la realtà che noi ci rappresentiamo non è la realtà, a dispetto della pretesa di conoscenza che tutti avanziamo, della presunzione di possedere la parola definitiva sul mondo. Galatea, costruita a immagine e somiglianza dal suo scultore, è l’arroganza di volere tutto secondo i propri schemi di riferimento, senza tenere minimamente conto che al di fuori di noi le cose non sono come ci sembrano o come le vorremmo; Galatea è la convinzione folle che il mondo ci rispecchi, la farneticante proiezione esterna dell’amore di sé, il narcisismo che si oggettivizza.
Gabbiano
Ha gli occhi aperti come chi sorveglia
e non vede com’è, ma come vuole,
chi vive un mezzosogno in dormiveglia… 15
Il Vento
Perché cambiare verso troppo duole
a chi non sa piegarsi come il vento
che sempre vento cambia sempre gole. 18
“L’esperienza stessa degli uomini è un mezzosogno, qualcosa che è a metà fra la realtà ed il sogno, per il fatto che non è quello che è come è, ma quello che è come ce lo rappresentiamo, quello che noi sappiamo e viviamo; abbiamo l’impressione di avere gli occhi bene aperti e di avere tutto sotto controllo (come chi sorveglia) ed invece siamo in dormiveglia, e vediamo le cose come possiamo e spesso come vogliamo vederle (e non vede com’è, ma come vuole). Il Mito di Pigmalione si presta a rappresentare anche questa dimensione dell’uomo; alla quale soltanto chi è esterno può far riferimento con imparzialità (un Gabbiano, ad esempio). Vedremo, in più, che il mito permetterà specificamente di sottolineare la nostra incapacità di “comunicare” veramente, per la pretesa che gli altri “siano scolpiti” a nostra immagine e somiglianza e la conseguente incapacità di tenere conto delle loro diversità.
Questo accade perché l’uomo non è flessibile come il vento e gli costa troppo adattarsi (cambiare verso troppo duole), come temesse di snaturarsi! Il vento riesce a cambiare continuamente traiettorie e gole, passaggi in cui insinuarsi, eppure non perde la propria identità, rimane sempre vento” (Amato Maria Bernabei, Mythos, Il mito di Pigmalione, Marsilio Editori, Venezia, 2006, p. 471, vv. 13-18).
Mai Pigmalione potrà sinceramente dire alla sua Galatea io ti amo, perché la sostanza del suo sentimento abita nell’io mi amo in ogni cosa. Del resto è nella stessa natura umana il limite dell’apertura all’altro, non solo per l’illusoria libertà di arbitrio, che sceglie solo nella direzione verso cui l’indole porta, ma soprattutto per il fatto che, “dopo non aver scelto” veramente l’altro, in forza delle urgenze che lo cercano adatto al sé, lo si pretende “come le proprie aspettative lo prefigurano, finendo per esserne sempre insoddisfatti e per condannare l’amore al fallimento” (vedi di seguito).
Il Vento
La libertà che un soffio presto spende
è come più riscalda e meno, il sole,
là dove batte, al timbro come intende; 39
la libertà soltanto di parole,
che quando sembra che scelga o rispetti,
riceve sempre quello che non vuole. 42
Menestrello
Non vedrà, chi pretenda e non accetti,
come la varietà più si separi
quanto più si congiunga negli aspetti. 45
Guarda la luna e gli occhi sono rari
come tutte le notti deliziose
e le scene ravvolte dai sipari 48
che domani saranno luminose.
Vivrà senza respiro, se non trasse
nessun tratto distinto dalle cose, 51
ma solo dalla mente che l’estrasse,
diversa come quella, a quella uguale
da cui soltanto il genere distrasse! 54
Degenere bellezza quando vale
la veste che l’identico ricopre
ed ammette la coppia innaturale. 57
“Un soffio d’aria sembra libero di spirare dove vuole, ma la sua libertà dipende dal vario riscaldarsi delle diverse superfici (al timbro come intende: “timbro” sta per specificità della superficie ricevente, che accumula calore in relazione alle sue caratteristiche, come intende, come è in grado di “capire”, di assorbire i raggi solari) sotto l’azione del sole (come più riscalda e meno il sole / là dove batte) ed è effimera (la libertà che un soffio presto spende, presto esaurisce); la libertà è in fondo soltanto una parola, visto che, sia quando sceglie che quando sembra rispettare l’altrui libertà, non va oltre la gabbia delle sue possibilità, perché manca in effetti di volontà decisionale (riceve sempre quello che non vuole: subisce sempre ciò che non vuole, ciò che non ha deciso, cioè; si riprende, con altre implicazioni, quanto già espresso ne Il mito di Edìpo, vv. 13-30, Il mito di Oreste, vv. 238-247, Il mito di Tesèo: Pirìtoo, vv. 68-73, e in parte in Zeus, v. 113). Nel mito di Pigmalione il concetto dell’apparente libertà di scelta si riferisce al fatto che nell’eleggere un partner intanto si è soggetti ai propri imprescindibili filtri; inoltre si prevarica la libertà del partner stesso nel non riconoscerlo ed accettarlo nella sua diversità, ma nel pretenderlo come le proprie aspettative lo prefigurano, finendo poi per esserne sempre insoddisfatti e per condannare l’amore al fallimento.
Per questo non riusciamo a cogliere ed a rispettare a pieno le diversità (non vedrà, chi pretenda e non accetti, chi avanzi pretese sugli altri e non li accetti come sono – e per tutti, purtroppo è così! -), ad apprendere come, quanto più gli individui sembrino simili (la somiglianza si fonda sulla sintesi delle note che rispondono all’essenza dell’uomo e che permettono la generalizzazione, il “concetto”), tanto più nettamente si distinguono gli uni dagli altri (come la varietà più si separi / quanto più si congiunga negli aspetti).
Galatea ha gli occhi immersi nel sogno (guarda la luna), di bellezza rara come tutte le notti più incantevoli, e le scene che esse avvolgono nei loro morbidi sipari e che il sole, sorgendo, illuminerà di nuovo.
Quando avrà vita, Galatea non avrà respiro proprio, se non ebbe in dote nessun tratto distintivo, diverso da tutte le altre forme (cose sia inanimate che animate; i versi contengono anche l’altro significato, quello per cui Galatea non avrebbe avuto dalle cose, dagli elementi che si sarebbero aggregati per formarla, nessun tratto originale); la donna avrà soltanto le peculiarità di chi la scolpì (della mente che l’estrasse, che la concepì), avrà le stesse “diversità” dell’individuo Pigmalione, sarà uguale a lui nella specificità, dal quale si diversificherà soltanto nel genere (da cui soltanto il genere distrasse, allontanò e dunque sortì diverso; Amato Maria Bernabei, Mythos, Il mito di Pigmalione, Marsilio Editori, Venezia, 2006, p. 472, vv. 37-57).
Narciso si ama in sé e disdegna il mondo: non c’è realtà, per lui, che viva al di fuori, sicché l’universo si esaurisce nel suo io: tanto che il solo impatto con la propria figura come altro dal mondo, è la sua morte.
Tirèsia
Il futuro stormisce quando origlio 21
nell’ombra del presente, e poi predisse…
Narciso è bello e non conosce amore,
vive con sé, nel vuoto dell’ellisse, 24
però non vede, perché il resto muore
e perché nel negarsi il volto appare,
ma se conosce sé, diventa fiore… 27
“Formule oscure… Quasi nascosto nell’ombra del presente, Tirèsia “origlia” lo stormire del futuro, che un attimo dopo la sua rivelazione è passato (e poi predisse) avendo detto se stesso in anticipo, pre-detto. Narciso non conosce amore: perso nella sua bellezza non vede oltre la propria orbita vuota. Il non essere pone l’essere e viceversa. Vivendo in se stesso, con se stesso, Narciso nulla conosce, perché ignora l’altro da sé (il resto muore) e dunque ignora sé, dal momento che soltanto quando si nega nell’altro da sé il sé si riconosce (nel negarsi il volto appare); tuttavia, nel momento in cui si conoscerà, egli diventerà fiore, condannato ad innamorarsi di se stesso fino al suicidio e pietosamente tramutato in corolla” (Amato Maria Bernabei, Mythos, Il mito di Narciso, Marsilio Editori, Venezia, 2006, p. 64, vv. 21-27).
Narciso è sempre oltre le cose, non perché teso a coglierne l’essenza, ma perché le attraversa senza nemmeno scorgerle: tutto per lui è vuoto, o tutto è cieco, o trasparente, e non perché chiaro, ma perché invisibile.
Menestrello
……
Come al cammino ardente dà la sete
l’abbaglio che nel nulla l’acqua vede,
rivoli alle fessure delle crete, 102
così l’amore illuso troppo crede,
spinge la ninfa quasi fosse attesa,
che se troppo credette, troppo chiede. 105
Esce dall’ombra, per amore arresa,
e corre, come il tempo all’ora tende…
ma mentre corre, già si sente offesa, 108
respinta dall’amore che pretende.
Sguardo svogliato, sguardo che attraversa
come la luce il vetro non intende, 111
argine vuoto che lo slancio avversa.
“Come al cammino affaticato dall’ardore del sole la sete dà l’abbaglio che dove non c’è nulla vede l’acqua, ruscelletti dove sono soltanto le crepe della terra riarsa, così l’amore che si illude dà troppa importanza a segnali insignificanti, spinge la ninfa da Narciso, come se fosse aspettata, la ninfa che come troppo credette, adesso troppo chiede! Esce allo scoperto, arresa all’amore, e corre come il tempo che tende verso un’ora precisa (non si allude alla velocità, ma all’inesorabilità), ma già mentre corre si sente mortificata: lo sguardo di Narciso è fiacco, privo di interesse, un argine che si oppone allo slancio della ninfa con la sua vuotezza, per la sua vuotezza. Eco non si sente guardata, ma attraversata da quello sguardo, che non la considera e non la capisce, come la luce che passa attraverso il vetro non vede e non capisce il cristallo” (Amato Maria Bernabei, Mythos, Il mito di Narciso, Marsilio Editori, Venezia, 2006, p. 66, vv. 100-112).
Pigmalione è altrettanto cieco, se tutto vede e tutto non vede, assimilandolo a sé. Narciso si specchia nell’acqua e non sa dell’acqua, Pigmalione abbraccia il freddo corpo di una donna senz’anima, e non sa dell’anima e della donna: abbraccia la propria bellezza, abbraccia il sale che non risponde, come non ha risposta il sé per il sé, ma solo l’eco della domanda, che a specchio si ribadisce.
Pigmalione
La vita senza giorno e senza sera,
descritta come il sogno non esiste,
ha lo sguardo nascente e non si avvera. 63
Incanta come mai le cose viste,
però all’amore quando si avvicina,
la fragile illusione non resiste. 66
Sospeso e mosso spezza e ricombina
il raggio, quando il vetro s’interpone,
in cento arcobaleni che mulina, 69
però nessuna fervida emozione
avrà la meraviglia fra le dita
che si distingue senza reclusione. 72
La forma che si forma ed è smarrita
è come questa che abbraccio e che muore
e non risponde al corpo come invita. 75
“Questa forma dalla vita apparente, che sembra viva, ma non è mai nata e non può morire (non ha giorno e non ha sera, dunque non vive), scolpita (descritta) come un sogno che non può esistere, ha gli occhi che sembrano continuamente sul punto di nascere, di muoversi, di guardare, ma non comincia mai veramente a vivere (non si avvera). È incantevole come nessun’altra cosa vista, ma di fronte al desiderio innamorato che la tocca per sentirla palpitare (però all’amore, quando si avvicina), mostra la fragilità della sua sostanza illusoria (la fragile illusione non resiste). È come il miraggio prodotto da un vetro poliedricamente sfaccettato che venga sospeso e mosso lungo la traiettoria di un raggio (s’interpone), che spezza la luce e la ricompone in frammenti innumerevoli e ruotanti (in cento arcobaleni che mulina) di arcobaleno, meraviglia che nessun desiderio ardente (nessuna fervida emozione) potrà mai stringere nelle mani, perché ogni frammento iridato è una forma (si distingue), dai contorni, però, che non costringono (senza reclusione), un’apparenza immateriale che non può appartenere a nessuno, se non appartiene nemmeno a se stessa!
La forma iridescente che rapidamente si delinea ed altrettanto rapidamente si dissolve (si forma ed è smarrita) è come la mia statua di avorio, che sembra viva e muore quando io l’abbraccio, incapace di ricambiare lo slancio fisico che suscita (e non risponde al corpo come invita“; Amato Maria Bernabei, Mythos, Il mito di Pigmalione, Marsilio Editori, Venezia, 2006, p. 473, vv. 61-75).
Galatea che s’incarna non differisce dalla Galatea di sale: per Pigmalione è soltanto l’avveramento del perverso desiderio di amarsi, il coincidere dell’altro con il sé, per la morte di entrambi. La splendida statua, cui Afrodite concede di vivere, è un replicante, ed è insieme l’emblema della realtà che Pigmalione vive: un tutto a sua immagine e somiglianza, perciò ignorato e ignorante, perché mai visto come altro e mai nella possibilità di vedere l’altro. L’amore che si ama è fiamma che brucia se stessa. In definitiva anche in questo caso siamo di fronte ad una realtà inconsistente, a mera apparenza.
Menestrello
Perché all’umana la divina ebbrezza
compiace dove il Cielo si riduce
tanto che pare misera l’altezza, 84
si riscalda l’avorio che seduce
e su di sé l’amante si ripiega
nell’amore e nel vuoto che produce, 87
bruciando sé la fiamma che si nega.
“Perché la follia (ebbrezza) divina asseconda quella umana dove la trascendenza, creata dall’uomo, dimostra la sua infondatezza, dove il mondo degli Dei si rimpicciolisce (dove il Cielo si riduce) al punto tale che la presunta altezza appare misera, come l’uomo che l’ha immaginata, la seducente statua d’avorio diventa viva (si riscalda l’avorio che seduce) e così Pigmalióne si ripiega su se stesso, si lancia nell’amore di sé nella sua proiezione e nel vuoto che un amore del genere produce, dal momento che brucia se stessa la fiamma che nega la sua natura (per il concetto dell’amore di sé cfr. pure Il mito di Narciso, vv. 21-27, 241-249; Artèmide, vv. 62-67; soprattutto Aracne, vv. 1-15, nota 2, vv. 19-22″; Amato Maria Bernabei, Mythos, Il mito di Pigmalione, Marsilio Editori, Venezia, 2006, pp. 473-474, vv. 81-88).
Non soltanto le cose sono inconsistenti per Pigmalione e per Narciso: loro stessi sono inconsistenti per le cose. La voce di Eco, che proviene dalla parte in cui Eco non è, non è una voce, ma un’apparenza, un’inesistenza che tenta la soglia di un’altra assenza… Eco è condannata a un destino di amore senza voce, a struggersi nel pianto, ad essere pietra, a vibrare per sempre un suono d’altri, perché Narciso svuota, distrugge, conferisce una mobile alterità (il continuo mutare delle voci riecheggiate) capace di mischiare “il vero altro del tutto” in un tutto di vibrazioni monotone, iterate, svanenti, che mentre lo cercano, lo perdono.
Menestrello
……
La ninfa insegue sempre più vicina,
e quando nella corsa concitata
richiama il cacciatore che si ostina, 87
senza che pensi e certo inaspettata
l’ultima voce regge e la rinvia
femminilmente e flebile mutata. 90
Volge l’orecchio l’altro sulla via
del suono, ma non c’è che un molle ramo
che ondeggia… Al desiderio allora invia 93
la stessa voce e si concentra all’amo…
e sulla stessa via flebile sente,
come vivesse d’aria, quel richiamo… 96
Riprova, attende… e la voce acconsente…
E si accorge che forse gli ripete
il suono estremo nelle corde lente. 99
“E quando nel concitato inseguimento il cacciatore ostinato lancia un richiamo al cervo, lei, senza che nemmeno debba decidere, raccoglie e sostiene l’ultimo tratto del richiamo, che certo non si aspettava, e lo rinvia mutandolo nel suo timbro femminile e flebile (femminilmente contiene anche la sfumatura della seduzione).
Narciso si volge prontamente nella direzione della voce udita, ma vede soltanto ondeggiare un ramo. Allora ripete il grido di richiamo, spinto dalla curiosità, ed attende che il suo tentativo abbia successo, concentrando l’attenzione all’amo, al suo tranello… e sente di nuovo, come avesse la consistenza dell’aria, quella voce.
Prova ancora, aspetta… e ancora una volta la voce lo asseconda… ma ormai Narciso si accorge che viene ripetuto l’ultimo suono emesso dalla sua voce (il suono estremo), con le corde allentate, fiacche” (Amato Maria Bernabei, Mythos, Il mito di Narciso, Marsilio Editori, Venezia, 2006, pp.65- 66, vv. 85-99).
Dunque, di Narciso, “le cose” hanno perfino la voce… una ragione in più per non esistere. Ci si chiede se ciò che non esiste possa morire: in realtà non muore l’amore inesistente, ma l’amante che ama sé, nella sua illusione di amare. L’acme del dramma è la fine del soggetto drammatico, la fine di un assurdo, l’epilogo di un tentativo, di un non producibile, innaturale, infecondo eros. Le labbra che si accostano a se stesse baciano l’impossibilità, e con essa la morte.
Menestrello
……
Brilla lo specchio d’acqua in Elicóna,
dove per l’estro fervido intercede 186
la Musa alla sorgente che risuona
di ogni moto che legge e trasfigura.
Così limpido brilla che ridona 189
come la vede sempre la figura.
Passa Narciso che mai s’innamora,
distrattamente, sguardo che non dura… 192
ma d’improvviso si rivolge, sfiora
la forma dentro il lago, adocchia, tarda,
insiste, avvolge, si stordisce, adora… 195
Non si conosce, ignora per chi arda:
si siede come colto da un’ebbrezza…
più niente e più nessuno adesso guarda. 198
Sprofonda il cielo nella sua bellezza
ed un profilo solo gli altri appanna,
ogni senso converge dove apprezza 201
l’unico senso al quale si condanna.
Il Lago
Un soffio d’aria e l’anima dispera
la forma che rivela come inganna 204
che dai frantumi si ritesse intera…
ma l’occhio così vivo e così smorto
non può vedere la sostanza vera. 207
Menestrello
Narciso sconta il Fato e sconta il torto,
Narciso che fu tale perché nacque
che fu crudele perché fu distorto. 210
Ora ritorna come prima piacque
il gioco che sul lago il vento ordisce,
l’immagine che apparve e quindi tacque. 213
Si spezza in onde il viso che sparisce:
Narciso è perso per l’amore preso,
che l’acqua ferma, presto, rinverdisce. 216
E più contempla e più diventa arreso,
come si curva debole uno stelo
della corolla appena per il peso. 219
Il Lago
È più vicino e sfiora quasi il velo
dell’acqua, sente sé da sé diviso:
non che conosca come non rivelo, 222
ma per l’amore che si appropria il viso
e si sporge all’incontro che raggiunge
l’altro con sé nel corpo condiviso. 225
Menestrello
Ama quel volto e al volto si congiunge
Narciso, ed al tramonto che scolora
in ansia scruta se la luna giunge, 228
e se rilutta, nella notte, ancora
si finge dentro il sonno la visione.
Non altro, fino al passo dell’aurora. 231
Il giorno non guarisce la passione
ma insana e insostenibile la rende,
quanto più si converte in delusione… 234
Perché quando Narciso si protende,
l’immagine toccata gli svanisce,
quando recede, presto si riprende… 237
…ma derise l’amante, e lo ferisce
l’amore rifiutando chi l’offese
adesso che sedotto lo sfinisce. 240
Non c’è rimedio ormai per chi discese
dentro la vanità del vano affetto,
che sembra, ma con sé non è cortese: 243
perché se guarda tutto con dispetto
e troppo accosta la propria sembianza,
sé come il resto vede per difetto. 246
Perciò non vede, perso alla distanza
dell’occhio aperto che più non riceve
quando manca la luce e la speranza. 249
La notte, che fu lunga, al giorno breve
rende lo sguardo, immobile Narciso
al mobile riflesso… Un’ombra greve 252
allunga l’Elicóna e annebbia il riso
del lago.
Narciso
Se quel volto non attira
nessun’altra promessa, se ravviso 255
ad ogni moto un moto che rigira,
ride se rido, piango e si commuove,
in qualunque respiro mi respira, 258
perché quando lambisco poi si muove?
Menestrello
Ansioso l’impazienza al volto inclina
prima che la dolcezza fugga altrove, 261
e poiché pure l’altro si avvicina
sente le labbra fredde a quella foga
e scopre sulle labbra la rovina. 264
L’ombra dell’Elicona, mentre affoga
l’amore, non il sogno che ha mentito,
l’acqua riflette e immobile soggioga. 267
Una pietà che il prato ha intenerito
sospinge e piega un fiore solitario
che sa di quel sopore che ha tradito 270
l’amante di un amore immaginario…
odora trasognato sulla riva
e sul fiore che guarda nell’acquario, 273
sull’ombra di un abbraccio che moriva.
“L’Elicóna è una catena montuosa della Beozia, secondo gli antichi sede delle Muse, da dove esse ispirano e proteggono le arti intercedendo presso la sorgente che zampilla sonora di quei moti (impulsi, sentimenti, emozioni) che sono capaci di leggere con occhi particolari la realtà e la trasfigurano in forme d’arte, a favore dell’estro fervido degli artisti. Lo specchio d’acqua è così limpido che restituisce in modo sempre fedele la figura che specchia.
Narciso passa, il giovane che non si innamora mai, ed ha il solito sguardo distratto che tutto attraversa e poco indugia sulle cose e sulle persone. All’improvviso, e come per caso, egli si gira verso il lago, sfiora con lo sguardo la forma riflessa (che lui però non avverte come tale), le lancia un’occhiata interessata, indugia a guardarla, insiste, la avvolge di sguardi, ne rimane stordito, la guarda adorante… Naturalmente non si riconosce, non sa per chi si sia accesa la sua passione: si siede, come colto da ubriachezza… non guarda più niente e più nessuno al di fuori di quell’immagine. Per quanto bello, il cielo è nulla di fronte alla figura che Narciso contempla; ormai esiste un solo contorno che fa sbiadire tutti gli altri, ogni senso converge verso il senso della vista, al quale si condanna: Narciso sembra solo di occhi!
Basta un soffio di vento e già l’anima dispera di rintracciare la forma svanita, che in fondo rivela così di essere ingannevole, soprattutto quando, dai frammenti e attraverso i frammenti, si ricompone. Ma gli occhi di Narciso, così accesi nel guardare se stesso e così spenti nel guardare il resto, e dunque incapaci di discernere, non riescono a vedere la sostanza vera dell’immagine, a comprendere la verità.
Narciso è colpevole di essere Narciso e fu crudele per la sua indole distorta; ora sconta insieme i torti arrecati e la sua natura. L’immagine incantevole, che era apparsa e che poi era sparita, adesso ritorna come era prima, nel gioco degli avvicendamenti che il vento ordisce sul lago. Poi sparisce di nuovo, il viso sembra spezzarsi in onde: Narciso è folle per l’amore che gli viene sottratto, per l’immagine svanita, che però ancora una volta l’acqua calma gli restituisce. Più contempla e più si arrende alla contemplazione (ma si abbandona anche nel senso fisico) come uno stelo che cede per il peso, pure trascurabile, di una corolla, tanto è fragile (il paragone annuncia la metamorfosi).
È sempre più vicino, tanto da sfiorare quasi la superficie del lago, eppure si sente diviso da se stesso, non perché conosca la natura del fenomeno (come), che l’immagine riflessa nell’acqua è la sua, cosa che io non gli rivelo, ma perché l’amore tende a far suo l’oggetto che ama fino a identificare l’oggetto amato con se stesso e ad esprimere questa identificazione nell’unità, avverantesi nella fusione dei corpi (a cominciare dal bacio, l’incontro).
Narciso ama quel volto e si unisce a quel volto, e quando il tramonto scolora il cielo, guarda in ansia se sopraggiunga la luna, che gli permetta ancora di vedere, sia pure sbiadita, quell’immagine: se la luna rilutta, tarda o non appare, allora durante la notte finge per sé, si raffigura quella visione nel sonno. Nient’altro fa, fino a che non torna il giorno. Che non guarisce la sua passione, ma la rende pazza e non più sostenibile, quanto più essa si trasforma, per lui, in delusione. Infatti, quando Narciso si sporge e tocca l’immagine, questa si dilegua, quando egli si ritira, quella rapidamente si ricompone; ma lui derise chi l’amava ed ora l’amore, avendolo conquistato, lo priva a poco a poco delle forze fisiche e mentali (lo sfinisce), si vendica ferendo “con il rifiuto” chi con il rifiuto l’aveva offeso.
Non c’è più rimedio, ormai, per chi discese dentro la vacuità dell’inutile passione di sé, per chi apparentemente sembra ben disposto nei confronti di se stesso, ma in realtà si autolede, attraverso la distorsione della propria immagine. Infatti chi guarda tutto ciò che non è se stesso quasi indispettito perché è “altro”, e troppo si avvicina all’oggetto da guardare, finisce per non vederlo più, finisce per vedere sé, come vede il resto, attraverso un difetto di valutazione. Per questo addirittura “non vede” (chi vede male è nelle stesse condizioni di chi non vede, almeno in rapporto alla conoscenza) perso in una distanza incolmabile, come quella dell’occhio sbarrato dalla morte che non è più in grado di ricevere immagini e perde la luce del giorno e la possibilità di sperare nel futuro. La notte è sempre lunga per Narciso che non può contemplare l’oggetto d’amore nel lago, ed il giorno sempre corto… (qui il giorno breve è anche la vita che a Narciso ormai sfugge…), rende Narciso immobile, fisso nel persistere, sempre teso alla stessa aspirazione, di fronte al riflesso sfuggente. Intanto il monte Elicóna sembra allungare un’ombra pesante, minacciosa ed offusca il riso del lago.
Se quel volto sembra attirato da nessun’altra promessa, se non da me, se ad ogni mio movimento (ma anche ad ogni emozione) ne corrisponde uno della stessa natura, se constato che moti ed emozioni mi ritornano, poiché l’immagine ride quando rido, si commuove se piango, respira in ogni mio respiro (le iterazioni intendono rafforzare la condizione allucinatoria), perché quando poi la tocco si muove, si dilegua?
Non ce la fa più e decide di baciare quel viso prima che ad una sua nuova carezza magari fugga per sempre altrove: ansioso piega la sua impazienza verso il volto riflesso, prima che la dolcezza di quell’immagine si eclissi definitivamente. E dal momento che anche “l’altro” si protende per avvicinarsi, finalmente c’è “l’incontro”… ma proprio nel momento in cui Narciso avverte il contatto freddo, forse si accorge dell’inganno, il suo slancio incontra le gelide “labbra” dell’acqua: è però troppo tardi! Nel bacio trova la morte: scivola ed annega. Ora, mentre l’amore affoga con Narciso, l’acqua non riflette più il sogno che al giovane ha mentito, ma nella sua immobilità specchia e soggioga soltanto l’ombra del monte Elicóna (compl. ogg. di riflette e soggioga).
Un sentimento di pietà, che ha mosso a tenerezza il prato, fa nascere e piegare sull’acqua un solitario narciso, che sembra ancora rapito in quell’estasi narcotica che ha tradito / l’amante di un amore illusorio, impossibile (sopore è il significato del vocabolo greco ναρχη [nàrche], da cui la parola Narciso deriva). Il narciso profuma sulla riva, incantato dalla bellezza del fiore che guarda nel lago, orma del riflesso di Narciso nel momento in cui il desiderio di un bacio lo perse, e ferma per l’eternità quell’istante. (Ombra perché di quell’abbraccio fatale resta solo il fantasma”; (Amato Maria Bernabei, Mythos, Il mito di Narciso, Marsilio Editori, Venezia, 2006, pp. 68-71, vv. 185-274).
Amato Maria Bernabei
Il racconto essenziale dei miti
Narciso
Figlio del dio-fiume Cefiso, in Beozia, e della ninfa Liriope. Quando nacque, sua madre domandò all’indovino Tiresia quale destino I’attendeva e Tiresia le rispose che sarebbe vissuto fino al giorno in cui non si fosse conosciuto. La risposta era molto enigmatica e a quel tempo nessuno la comprese. Fanciullo di straordinaria bellezza causò l’innamoramento di molti uomini e molte donne, che egli regolarmente respingeva. La ninfa Eco si innamorò di lui, ma poiché le sue continue chiacchiere mettevano sull’avviso Zeus, intento ad amoreggiare con le altre ninfe, dell’approssimarsi di Era, incorse nelle ire della dea che le tolse il dono della parola con una sola eccezione: poteva ripetere l’ultima sillaba di tutte le parole che udiva. Narciso non accettò l’amore di Eco la quale si consumò nel suo dolore tanto che di lei non rimase che la fievole voce. Il giovane Narciso comunque venne punito per la sua crudeltà. Un amante rifiutato pregò Nemesi, la quale condannò Narciso alla contemplazione della sua bellissima immagine riflessa in una sorgente sul monte Elicona. In quello specchio d’acqua egli vide il suo volto e se ne innamorò a tal punto che non riuscì più ad allontanarsene fino a che morì. Fu mutato nel fiore che porta il suo nome (M. Grant- J. Hazel, Dizionario della mitologia classica, SugarCo Edizioni, Milano, 1986).
Pigmalione
Re di Cipro, celebre per l’antica leggenda che lo voleva innamorato di una statua d’avorio riproducente Afrodite, che lui stesso aveva scolpito. Desiderando sposarla, l’aveva distesa sul proprio letto, invocando Afrodite perché vi alitasse il soffio della vita. La dea esaudì la sua richiesta e la statua divenne una creatura vivente, dalla quale Pigmalione generò Pafo, che a sua volta avrebbe avuto un figlio, Cinira, destinato a fondare la città di Pafo nell’isola di Cipro, dove è attestato fin da epoca assai antica uno dei principali santuari dedicati al culto di Afrodite.
La più celebre versione del mito è quella riferita da Ovidio nelle Metamorfosi (Anna Ferrari, Dizionario di mitologia greca e latina, UTET, Torino, 2002).
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