Dante e il Pifferaio di Hamelin…

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I topi che annegarono nelle acque del Weser, ammaliati dalle note del pifferaio che disinfestò la città di Hamelin – come racconta la favola trascritta dai Fratelli Grimm ispirata ad una tragica, non pervenutaci, vicenda reale accaduta proprio ai tempi di Dante in Bassa Sassonia, e che pare ebbe protagonisti non dei ratti, ma dei bambini -, ben si prestano ad incarnare le folle ingenue ed istupidite dalla voce (assai sgradevole, a dire il vero) e dai gesti (fuor di dubbio grezzi e goffi), del moderno incantatore, trascinate nel fiume di una morte da vivi, ch’è quella del senso critico e del sapere.

 Santa Croce: Il Pifferaio di Hamelin…

Benigni: INFERNO XXVI
Ti vendono la morte pur di fare quattrini (Renato Zero, La tua idea)

 

Dopo aver pubblicato il saggio O Dante o Benigni (Sacco Editore, Roma 2011) non dovrei sentire il bisogno di aggiungere altro sulle “esegesi” del comico. Ogni volta, però, che m’imbatto nello scempio perpetrato ai danni della Commedia dal “luminare” di Manciano La Misericordia con l’avallo del mercato, non posso fare a meno di ritenere indispensabile tornare sull’argomento, aggiungendo nuovi rilievi e nuove critiche. Soprattutto dopo il chiassoso annuncio, da parte della colpevole RAI, della nuova, indecente performance del “SoTutto” nazionale: lo show sui Dieci Comandamenti!

Chi voglia veramente rendersi conto delle ragioni del mio disgusto e del mio sdegno, legga quanto segue, con pazienza (specialmente le note) e con attenzione. Questa volta non è il cerchio dei lussuriosi, ma la trattazione benignesca del XXVI Canto dell’Inferno ad offrirmi l’occasione di smontare con facilità il palco nocivo di Santa Croce.

Soffermiamoci sulla “straordinaria” introduzione del comico, piena di farragine incoerente, dove il senso del discorso sembra proprio non esistere. La cosa ci meraviglia assai poco: perché ormai conosciamo l’incompetenza dell’”illustre esegeta toscano” e la babele del suo pensiero, poco attrezzato di conoscenza e di raziocinio. Cosa che ogni passo delle sue prestazioni evidenzia in modo inequivocabile.

«Noi abbiamo fatto i diesci Canti tutti di seguito e sc’è stata una cosa narrativa che non ha ppari [1]. La poesia di Dante è fatta di vette, ma proprio di vette straordinarie, una più grande dell’altra, però questo Canto che lesgiamo stasera, il XXVI, l’Ulisse, è forse la vetta più alta di tutta l’opera. Io non saprei dire, mi garbano tanto tutte, ma per lo meno una delle più famose, delle più misteriose, enigmatiche. Non è un caso che Primo Levi [2], che è stato, disciamo, nei campi di concentramento per tanto tempo [3], e, ee dei nazisti, e Osip Mandel’štam, forse u… il più grande poeta russo [4], che è stato nei gulag di Stalin, tutti e due nello stesso momento hanno scritto una cosa sull’Ulisse di Dante [5]. Questo poo, commuove molto, nel senso stavano nel luogo più basso, nel girone più basso della storia dell’umanità, sia Primo Levi che Osip Mandel’štam. Primo Levi l’ha mmesso in Se questo è un omo [6] sc’è un capitolo intero dedicato all’Ulisse, dove scerca di ricordarsi a memoria l’Ulisse per dire io sono anche questo [7], e questo l’ha ssalvato! Osip Mandel’štam nei campi del lavoro di Stalin ha scritto un saggio sull’Ulisse [8] e anche lui ha ddetto “io sono questo, io non sono questo”, è una cosa che strazzia il cuore di bellezza, perché vedendo l’orrore intorno a sé, non riconoscendo come uomini quello, volevano presentarsi a Dio discendo io appartengo a coloro che hanno scritto questo [9]. E questa è una cosa che spacca il cuore, propio fa… (applausi! Che applaudono?…) e, e quello sce l’abbiamo, tutti noi, è dentro ognuno di noi… Questo è un applauso che va a lenire gli orrori di quelli che hanno sofferto tanto, disciamo…

Questo ora eee, sono pecchi, ee, questi peccatori del XXVI sono i consiglieri fraudolenti, scioè quelli che con la frode consigliano, eee quelli furbi… e Ulisse è simbolo di que… Quelli furbi, che non vincono a viso aperto, ma consigliano fraudolentemente, siccome usano male il libero arbitrio, l’intellisgenza ch’è il dono più grande che Dio ha ffatto agli uomini, ee alè agli animali non è concesso questo, disce vi do la scintilla dello spirito, dell’intellisgenza, e voi me la usate così! E li mette in questo fondo d’inferno con una pena e un contrapasso che ora vedremo. Ecc’allora…

Inizzia con un inizzio che più meraviglioso non si può. Inizzia con quello che, una figura retorica che in poesia si chiama l’ironia [10], che poi sappiamo cos’è, e inizzia con un inno a Firenze [l'invettiva è diventata un "inno"!]. Amava da mmorire Firenze e la odiava, perché quello che gli aveva fatto questa scittà, ingiustamente, Donati, quello che ‘li ha, mamma mia, tutti i sgiri che ha avuto in questa scittà! Lasciamo perdere, e l’amava, ovviamé, si sente una nostalgia d’amore immensa, eh! E inizzia così. Godi, Fiorenza… All’epoca di Dante a Palazzo dei Bargello avevano messo un’iscrizione: Firense era la capitale del mon-doo, nulla era pari a Firenze di bellezza e di potenza, e in Latino avevano fatto un’iscrizione quando Dante era qui a Firenze, ragazzo e da grande, dove si disceva che la nobiltà e la grandezza di Firenze volava per tutto il mondo, in cielo, in terra e in mare [11], e allora lui si rifà a quest’iscrizione che dopo è stato distrutto [12]

Ecco la fotografia dell’iscrizione che Benigni sostiene essere andata “distrutto” e che invece è ancora ben visibile, e come si vede fotografabile e stampabile, in Via del Proconsolo sulla facciata del Bargello!

 

 

 

‘nsomma questa iscrizione e disce: “Godi, Fiorensa”,  un inissio spettacolare, godi Fiorensa, ‘enti, Godi, Fiorensa, poi che se’ sì grande, e cita quell’iscrizione che tutti conoscevano, che per mare e per terra batti l’ali, terso endecasillabo [13], e per lo ‘nferno tuo nome si spande! Eh, eh… sei propo famosa anche all’inferno, ti conoscano tutti, mme… Non solo ti conoscano per cielo e per mare, ma all’inferno famosissima sei, si sente solo fare il tuo nome… “Son di Firenze, so’ fiorentino anch’io”, “Tté? Fiorentino? Sei di Firenze?” “Sì, e tté” “Anch’io di Firenze!” “Ah!” Tutti di Firense erano, lì, all’inferno, eh! [14] Allora disce: Tra li ladron trovai cinque cotali / tuoi scittadin… eeh! Eee onde mi ven vergogna / e tu in grande orranza non ne sali. E vai Firenze, gli disce eh! Taìla io ho trovato cinque ladri, cittadini tutti tuoi, mi sembra che tanto da ddire “son famosa ne’ mmondo” non sci hai tanto daaa da ffatti ggrande, eh! E poi sentite che disce: Ma se presso al mattin del ver si sogna, sempre in, arrabbiatissimo è, aaa ddurante il Medioevo si pensava che i sogni fatti all’alba fossero veritieri, quindi uansà e prima di svegliarsi si sogna spesso, no? Allora isce, se presso al mattin del ver si sogna / tu sentirai - a Firense – di qua da ppicciol tempo, tra ppoco, di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna. Prato voleva la distruzione di Firense ed erano sudditi, alleati di Firense: figuriamoci quegli altri! Ome dire di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna. / E se già fosse, non saria per tempo. Se t’avessero sgià distrutta sarebbe sgià troppo tardi, disce lui, eh! Così foss’ ei, da che pur esser dee! Tanto, visto che dev’essere, che ti danno una lezzione proprio forta, forte, facciamolo esse pprima possibile, ché più mi graverà, com’ più m’attempo. Quest’è un verso quasi che… si può interpretà ‘n due versi, disce che più passa il tempo e più sci sto male che non, che propio non ti, non ti diano una lezione, e anche invecchiando, la nostalgia de la su’ scittà, l’amore della su’ scittà, così, dopo ci starei peggio, se lo fascessero più tardi: facciamolo subito! Come se entrassero… ecco ii i i iii i i Guelfi forusciti, quelli ch’eran co’ llui a dare una lezzione a quest’orrori che vedeva ‘n questa scittà llui [15].

Quindi fa queste quattro tersine spettacolari d’invettiva contro la su’ scittà, ma dove si sente anche a parte la la grandezza delle rime che son quasi rime prese pe’ capelli, no?, quando disce da che per esser dee [16], no? ee agogna e com’ più m’attempo, tutte rime prese pe’ capelli, sembra che cascano, perché è un Canto che ci fa, quando scrive Dante dà il sentimento pisicologico perenne in eterno e non solo, ma dà il senso del Canto, nelle rime, tipo di rime, portano, lo vedremo dopo quando lo leggeremo, ancora meglio, portano a sapere che tipo di cosa sc’è in questo Canto. Questo è un Canto che casca, che srotola, non si tiene. Sc’è qualcosa, sc’è un’angoscia tremenda, un’ansia. Si deve arrivare a un punto straordinario, e lui sce lo fa sentire. Sentite come si sente. Finisce l’invettiva”…  [17] E disce: nun ne voglio parlà più, fammi smette co’ Firenze se no vado al manicomio, eh! Ecco.

Chi insiste nel dire che Benigni ha avvicinato la gente a Dante, spieghi prima queste ciance indecifrabili! Un approccio del genere all’Alighieri, e nella fattispecie a un Canto della Commedia, è semplicemente demenziale. Spieghi che cosa significhi “rime prese pe’ capelli” che “portano a sapere che tipo di cosa c’è in questo Canto”, spieghi che senso abbia affermare “questo è un Canto che casca… non si tiene” e tutte le altre baggianate. E spieghi soprattutto in che lingua si esprima il comico toscano!

Noi sci partimmo e su per le scalee / che n’avea fatto iborni a scender pria, “iborni” vuol dire eburnei, bianchi, che sci avea fatti diventà bianchi dalla fatica a scendere, figurat’a risalire, disce, no? Rimontò ‘l duca mio e trasse mee; / e proseguendo la solinga via / tra le schegge e tra’ rocchi dello scoglio / lo piè sanza la man non si spedìa, non potean andare attaccandosi tra le schegge e tra’ rocchi de lo scoglio… attensione, eh!”

Macché “non poteano andare attaccandosi”… non riuscivano a procedere senza l’aiuto delle mani, quindi magari i piedi ce la facevano proprio grazie alle mani che si “attaccavano” alle sporgenze della roccia. L’interpretazione del passo scelta da Benigni è comunque la più dubbia e contorta. Riprendendo la lezione del verso 14 accolta dal Sapegno, che n’avean fatto i borni a scender pria, il senso più logico sembra: la mia guida (‘l duca mio) risalì lungo la gradinata che i borni (le pietre sporgenti dalla roccia, dal franc. borne, “pietra”) avevano formato permettendo la nostra precedente discesa. Del resto lo stesso Dante scrive poi proseguendo… tra le schegge e tra’ rocchi, che appaiono come sinonimi e “traduzione” di borni! Naturalmente è un affronto confutare le tesi di un “filologo” che vanta due Lauree in Filologia Moderna, delle nove honoris causā conferitegli!

“Eccosci, questo è tutto i’ ssenso vi disce ora cos’è questo Canto”.

Benigni sta per barbugliare goffamente delucidazioni di versi che proprio non ha capito.

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ‘ngegno affreno ch’i’ non soglio,

perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ha dato ‘l ben, ch’io stessi nol m’invidi.

La spiegazione è semplice e rapida: quando rivolgo la mente a quello che vidi, provo la stessa sofferenza di allora, e tengo a freno il mio ingegno più di quanto non sia solito fare, perché non corra a briglia sciolta, non si liberi dal controllo della rettitudine (considerazione quanto mai appropriata nella narrazione della bolgia in cui sono puniti coloro che l’ingegno hanno messo al servizio dell’inganno); così che, se il favore degli astri (stella bona) o la grazia divina (miglior cosa) mi ha dato il bene, cioè buone inclinazioni naturali, io non me ne privi da me stesso (ch’io stessi nol m’invidi, sul modello del costrutto latino sibi invidēre, negarsi [18]).
Ora leggiamo le fesserie inaudite dell’improvvisatore “da decima bolgia” (falsari), che quasi nulla hanno a che vedere con il testo dantesco:

Allor mi dolsi, ebbi paura, guardò… i cche sc’era? E ora mi ridoglio, era l’ottava bolgia, eh, fa così lui, allor mi dolsi e ora mi ridoglio / quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi / e più lo ‘ngegno affreno ch’io non soglio [19], si deve tenere, sentite la sospensione, sc’è una cosa che ti fa andare, fammelo vedere i cche sc’è?, dimmi che sc’è… ah, qui comincia, eh! figurati, continuerà tutt’i Ccanto [20]. E più lo ‘ngegno affreno ch’i’ non soglio, / perché non corra che virtù nol guidi… O cche sc’è? sì che, se stella bona o miglior cosa / m’ha dato ‘l ben, ch’io stesso nol m’invidi [21]: questo vuol dire se se, se io ho talento devo tenere il mio ingegno perché se no, se se racconto subito a chi ho visto, com dire o cand ciaeoe [22] rovino sia la poesia sia me stesso [23], devo tenere il mio ingegno, devo tenere la mia conoscenza, la mia intellisgenza, che è… questo Canto è dettato tutto da… la virtù, la grazia che sorregge il desiderio di sapere, di ardore e di conoscenza, e lui sce lo disce dall’inizio, eh! Lui disce io devo stà attento perché non corra che virtù nol guidi, isce io non posso raccontavvi subito, deve, sci vuole una virtù, sci devo pensà bbene, devo devo davvi questa cosa con grande grazzia e sci devo pensare molto, non devo correre [24], se no disce se stella bona o miglior cosa se se io ho avuto in dono questo talento, che anche per il lavoro che ho fatto, disce che io stesso non lo rovini, nol m’invidi, che non lo rovini io stesso, ve lo voglio di’ bbene”.

Veramente scandaloso… Imbonire facendo dire a Dante quello che Dante non ha scritto!
Alla “spiegazione” biasimevole dei primi 24 versi, fa seguito quella delle successive 10 terzine: la parafrasi spedita e lucida richiederebbe un centinaio di secondi, ma Benigni ne usa dieci volte tanti e si abbandona a 15 minuti di logorrea, ripetizioni infinite, digressioni inutili, se non nocive alla comprensione del passo, con la conseguente impossibilità, per chi ascolta, di capire e di ripetere eventualmente il significato di quanto la giullaresca “docenza” (absit iniuria…) finisce di complicare più che delucidare! Chi vuole inorridire, legga il documento…

Tate a sentire, qui sc’è una delle più belle similitudini, sare quelle cose che disce quando si disce com’era? Come, quando, una, le similitudini, no? [25] Questa è meravigliosa: state a sentire la popolarità e la grandé, perché è coltissimo e Cant sci butta delle cose contadine, propo di Vergaio, se tate a sentì ben… disce Quante ‘l villan ch’al poggio si riposa… u cche vol dire? Boh! Uno rilegge: Quante… quando sc’è quante, sci sarà un tante, no? Per ora non c’è, disce quante il villan ch’al poggio si riposa, isce quante il contadino che si riposa ‘n un poggio, sci disce ora, eh!, vediamo. Quando arriva quante e, vediamo ora sce lo dirà, Quante ‘l villan… sci sta descrivendo cosa sta vedendo, eh!, e sta trattenendo la sua virtù [26]. Quante ‘l villan ch’al poggio si riposa [27] / nel tempo che colui che ‘l mondo schiara… Chi è “colui che il mondo schiara”? Il sole… verissimo! Alór, Quante, ancora non si sa che, il contadino che si riposa il poggio [28], eee… nel tempo in cui il sole, cosa?, nel tempo che colui che ‘l mondo schiara / la faccia sua a noi tien meno ascosa, quindi nel tempo in cui il sole tiene meno nascosta a noi la sua faccia: d’estate, potrebbe esse a giugno, a luglio, sci disce proprio l’ora esatta, eh, attenzione, eh! Allora, quante, non si sa che, il contadino che si riposa il poggio, durante l’estate, nel tempo che il sole, colui che ‘l mondo schiara / la faccia sua… [29] è un poeta, eh! Son bellissime que, la faccia sua a noi tien meno ascosa, attenzione a quest’endecasillabo, come la mosca cede a la zanzara… Ma qual è il poeta che, che fa una poesia d’una grandezza così con le mosche e le zanzare? Non solo sci disce a giugno, Quante… un contadino che si riposa su i poggio, quando il sole sta più… eee… picchiato su noi d’estate… E quando? a che ora? come la mosca scede a la zanzara, quindi è tra le sette e l’otto di sera, l’imbrunire, quello che Shakespeare chiama il twilight, le due lusci, no? [30] L’ora tra il cane e il lupo? Dante disce come la mosca cede a la zanzara, un endecasillabo perfetto ch’è più popolare e bello all’osservatore… ‘nfatti noi si disce spesso disce: “Quando sci si vede?” “Quando la mosca scede alla zanzara” e mome… io, quante volte lo dico, perché anche quando si va ai scine che la lusce a cavallo di che noi isce quando si va vvia? [31] Quando la mosca scede alla zanzara. E… allora un c’era le zanzare tigre che sc’era l ci son dalla mattina, ora un si potrebbe più ddì questo verso, eh…  Allora sentite, ancora non abbiamo capito [32] e sci disce allora l’ora, allora nessun poeta al mondo fa queste similitudini [33], eh! Quante ‘l villan che al poggio si riposa [34] / nel tempo che soèe… come la mosca scede a la zanzara, / vede lucciole, finalmente arriva non il soggetto ma a, a il soggetto [35] ma poi sci dirà “tante”… mosca, zanzara, vede lucciole giù per la vallea… Allora un contadino, chee sta ne’ ppoggio, eee verso le sette l’otto di sera il 26 di sgiugno [36], guarda sgiù così e vede pien… allora sce n’era tante di lucciole, eh! Pasolini ha detto so’ finite ‘nfatti [37], però, allora erano milioooni le lucciole, miliàr-di, miliardi… pieeno di lucciole, ard che similitudine, però la fa pell’inferno, pensa la dolcezza! [38] Vede lucciole sgiù per la vallea / forse colà dov’ e’ vendemmia e ara… propo nel su’ podere! Isce propo dove si ai, in questa cosa d’inferno sci fa vvenire questa similitudine d’un contadino che ha ffatto il su’ lavoro nel su’ podere e guarda sgiù, magari così pensando co ‘na spiga ‘n mano, co’ un sigaro, non so se si fumava all’epoca [39], e riguardando sgiù questo luccioleeto enormee de contento del su’ lavoro… ancora non sci ha ddetto il tante, eh! forse colà dov’ e’ vendemmia e ara / di tante fiamme tutta risplendea… di tante fiamme tutta risplendea / l’ottava bolgia, sì com’ io m’accorsi / tosto che fui là ove ‘l fondo parea… [40] lui è com, una soggettiva [41] he fa così… uuh maa e vede, le bolsge sono… infinite, eh! È una cosa enorme, non è la vallea de’ ccontadino, eh! È una cosa infinita [42], e vede miliardi di fiammelle, di fiammelle, uno spettacolo meraviglioso ne’ ffondo dell’inferno. Come un contadino e ‘n quell’epoca là che pe fa vvenire anche ai nostri sgio come vorrei esse quel contadino ‘n pasce… lui è propo nel fondo dell’inferno e sta facendo sto viaggio per noi, eh! [43] Altra similitudine dopo un contadino ch’è lì a guardà le lucciole: questa la fa ccoltissima! Attenzione: E qual colui che si vengiò con li orsi / vide ‘l carro d’Elia al dipartire… ci vuol far capire com’è sta bolgia, eh! quando i cavalli al cielo erti levorsi… Attensione, ve la leggo tutte… che nol potea sì con li occhi seguire, / ch’el vedesse altro che la fiamma sola, / sì come nuvoletta, in sù salire: allora lu’ disce qua “e come quello che si vendicò con li orsi”. Uno che ci avea un minimo d’erudizione all’epoca, all’epoca leggevano, i libri non eran tanti come ora, ora tutti scrivano, all’epoca no… oggi sc’è più ee, le, scrittori che lettori… [44] io quando vedo uno he legge un libro gli vo’ a chiedere l’autografo: “Scusi, lei mi fa l’au… è rimasto solo praticamè… perché scrivano tutti e un legge più nessuno, allora ora disciamo? E qual colui - disce – che si vengiò con li orsi / vide ‘l carro d’Elia… con quest’Elia, disce, Elia sappiamo che è un grande profeta; nella Bibbia, la Bibbia la conoscan tutti, Bibbia, Libro dei Re, secondo Libro dei Re, sc’è la storia di Elia e Eliseo [45]. Ve la dico ‘n du’ parole, bellissima perché Elia era il grande profeta e doveva passare dopo il regno di David, Salomone eccetera c’era il vizzio ne’ mmondo. Elia era un profeta, faceva dei miracoli naroè e doveva passare quando moriva i suoi poteri a un antro [46] e Dio gli disce: “Va’ a trovare un scerto Eliseo” [47].  Lo trova, Eliseo lo guarda e lo segue [48]. Ora, isce, lui doveva sempre seguirlo, perché per avere i poteri d’Elia, Eliseo lo doveva vedere ne’ mmomento in cui Elia si toglieva da llui, scioè quando moriva [49]; e quindi non lo lasciava mai        , perché sentiva che il Signore era su di lui e lui era il profeta chiamato a sostituirlo. Hanno fatto delle cose bellissime ‘nsieme; ma la bellezza è che Eliseo non lo lasciava mai. E Elia voleva rimané ssolo, gli facea [50]: “Senti Eliseo, io vado a Gerico, cciao”, “No, quant’è vvero Iddio, quant’è vvero che tte ttu ssei vivo e io son vivo vengo con te”. “Oh, llasciami scinque minuti”, “E vengo co’ tte!”… è andata. Isce “Oooh, domani devo andare a Betèl, ciao”. “Quant’è vvero Iddio, quant’è vvero che tte ttu ssei vivo e io son vivo vengo co’ tte”. “Oh, lasciam’andà, no?”, “Vengo co’ tte”… Non lo lasciò mai un secondo, ma propo mai un secondo; fecero delle sgesta memorabili, finché un giorno – eccosci!… alla cosa – vide ‘l carro d’Elia al dipartire, / quando i cavalli al cielo erti levorsi, quando i cavalli si levarono in cielo, che nol poteva [51] sì con li occhi seguire, / ch’el vedesse altro che la fiamma sola, questo non è Elia, ma quello che si vengiò con gli orsi, Eliseo, eh! sì come nuvoletta, in sù salire, sci disce che queste fiamme arrivati in un deserto [52], Elia era molto vecchio, e gli dissee… “Allora non mi lasci mai!”, capì che aveva capito, no? Isse: “Mai”. Ne’ mmomento che stava pe’ vvoltarsi, arrivò un carro, mandato dal Signore, un ca, un carro famoso, insó, un carro d’Israele tirato da quattro cavalli, con un angelo [53], lo vede, lui s’inchina, Eliseo perché lo vede, nel momento che s’inchina il cavallo prende il corpo d’Elia, rimane solo il suo mantello e vvvoon, si alza nel cielo, e Eliseo fa appena ‘n tempo, per un secondo, pecché s’era inchinato pe’ pregare, perché aveva visto che sc’era l’immagine del Signore [54], vede per un secondo una fiammetta, sscccc, così, e allora lui descrive, com’è descritta nella Bibbia, che è descritta benissimo, isce proprio come Eliseo quando vide Elia, vvvum, sì come nuvoletta, in sù salire, però fesce in tempo a vedello, e il potere del Signore passò su Eliseo. Ed ecco perché disce si vengiò con gli orsi [55]: lui si rase il capo, andò a fare miracoli nelle scittà – è tutta simbolica la Bibbia, eh! – arrivato ‘n un paese [56] sc’era de’ ragazzini, lo presero ‘n sgiro perché ci avea iii, ci avea la raa, ci avè… era tutto pelato: “Ah ah, b ha la crapa pelata, eh, bischero, crapa pelata!”. Puttana! a Eliseo un affare ‘n quella maniera?! A Eliseo scera delle orse, nell’orto, aeee nell’o… nel bosco lì viscino, uscirono due orse femmine e ammazzarono parecchi di quei bambini. Ora non è che era cattivo, era nel senso era simbolico, he chiunque nelle scittà ostacolava o derideva e e il il nome del Signore, quella scittà sarebbe stata punita, era un simbolo. Quindi quello si vengiò, si vendicò con gli orsi… sta pparlando d’Eliseo, che si vendicò con questi orsi perché stavano schernendolo, come se fosse un idiota, eh! E qui abbiamo…  e qui e e l’immasgine della Bibbia è meravigliosa, io ve l’ho descritta male, nella Bibbia sc’è l’immasgine di questa fiamma che sale [57]. Allora disce, eee dunque… Tal si move, così si muove ciascuna per la gola, queste fiammelle si ssi muo, si muovevano fssss, fssss, fssss [58], andavano su così, questa era la bellezza [59]; e un… ma ma… voi dovete immasginarvi una cosa immensa, dall’alto così una cosa immensa, immensa, che sembra un po’ queste scittà moderne quando si vede la vista con tutto ‘sto luccioleto,  immensa, vede l’Italia che si vede dall’aereo a volte. È come se Dante avesse visto quella cosa lì, con le lusci che fanno così, ha come vvisto i nostri tempi, propio, ecco, un po’ l’inferno quello, eh! Ah, e un pa un paradiso anche. Allora. Tal si move sciascuna per la gola / del fosso, sentete l’enjambement: per la gola / del fosso, verso dopo. Sce n’è molti, qui, perché gl’ingambamenti, quando l’ingambament, quando un verso finisce, la parola dopo comincia, tta… bisogna… e l’endecasillabo finisce lì, ma ti dà il senso del rotolare, dell’andare avan, non ti fa fermare, non bisogna fermarsi; quelli sono ‘mportantissimi, ne vedremo di stupefacenti tra ppoco, eh? [60] Eeee, tal si move sciascuna per la gola / del fosso, che nessuna x\mostra ‘l furto, nessuna fiamma mostra chi cc’è dentro, chi ha rrubato, che immasgine ha rubato… e ogne fiamma un peccatore invola, eh? Ora e uun peccatore invola, dentro a ogni fiamma sc’è un peccatore. Ooo… Io stava… io stava sovra ‘l ponte a veder surto, assorto [61], sovr’al ponte, attaccato a un ronchione così, Dante… Sci ha un’ansia… per, sci ha quest’ansia tremenda e non si capisce perché [62], sì che s’io non avessi un ronchion preso, / caduto sarei sgiù sanz’ esser urto. Se io non avessi preso un ronchione, l’ansia di vedere [63], ero così assorto a vedere ‘sta cosa meravigliosa [64] e l’ansia mia era talmente forte… ma perché, perché n’ha vviste di cose meravigliose! Perché sci ha quest’ansia Dante? Questa è la cosa grande. Disce che se non mi fossi attaccato sarei cascato sgiù senza che nessuno mi toccasse, senza esser urto. Eh, qui disce un’ans, fa vvenire ansia, disce o cche sc’è? o cche sc’è? E ‘l duca, Virgilio, che mi vide tanto atteso, che mi vide così teso [65], disce eh, disse: “Dentro dai fochi son li spirti; ma Ddante l’avea sgià capito da ssé, dentro… però Virgilio glielo disce, dentro dai fochi sci sono gli spiriti [66] catun si fascia di quel ch’elli è inceso”, ognuno si fascia, è, quello che ha… ddetto Dante da ppoco, di della fiamma ch’è, ch’è acceso si fascia uno spirito. “Maestro mio”, rispuos’ io, “per udirti / son io più certo, m’hai fatto più certo; ma già m’era avviso / che così fosse, l’avea  capito da ssé; io ti ringrazio, m’hai fatto scerto, ma il novanta, lo sapevo da me al cento per scento, che così fosse / e già voleva dirti: ti volevo dire, oh, vediamo, perché sci hai quest’ansi? [67] chi è ‘n quel foco, gl’interessa un foco spesciale,  che vien sì diviso, un foco diviso ‘n due, du’ fiamme, di sopra, che par surger de la pira, de la pira, dov’Eteòcle col fratel fu miso? ‘mazza, oh! Coltissimo, qua… La storia d’Eteòcle ve la devo di’ perché è spettacolare: Eteòcle è il figliolo di Edìpo, Edìpo re, du’ figlioli, Eteòcle e Polinìsce, fatti co’ Giocasta, sua maa-mma! [68] La mamma di Edìpo… Edìpo, poeraccio, gli è stato… se nessuno gli disceva quella cosa a Edìpo, la Sfinge non gli fascea: “Tu ffarai all’amore co’ la tu’ mamma occiderai il tu’ babbo”, lui non si moveva da ‘ndov’era, non gli succedeva nulla [69]: hai capì? Ecco ah… E quindi Edìpo, Edìpo sci racconta, disciamo, quest, Eteòcle e Polinisce, nati da questa orribile uniò, loro ‘nsomma dalla cosa che lu’ non sapeva, della madre, Edìpo s’acceca [70] e maledisce ‘sti due figli [71] nati da questo impasto che lui non avrebbe mai voluto: ha ucciso il padre, ha fatto all’amore co’ la su’ mamma. Una storia eee che spacca il cuore, nasce ‘sti du’ figlioli che si odiano fin da bambini… iuu, iee, ee ieh! [72] S’odiavano sempre. Lui li maledisce: “Maladetti tutt’e ddue!” nati da un matrimonio così! Poi diventa sceco va vvia eccetera e il Regno, la scittà di Tebe, rimane, sono loro i re, sono figli del re, lui se ne va vvia, Edìpo, e e lascia i due figli. Litigano sempre, allora descidono, ‘sti du’ figlioli, disce dov’Eteòcle… quel ee,  quel foco che vien sì diviso è un foco diviso come la pira dove furono, dove Eteòcle fu messo. Allora, quand’eran piscini litigavano… pe’ no’llitigare dissero: “Senti Eteòcle”, gli disse a Polinisce, “Eee… governiamo un anno per uno, così non ci si litiga. Te vvai via quando governo io, poi torni te eccetera”. Gli disse Polinisce: “Va bbè”.  Non mantenne il patto perché ena orrendi tutt’e ddue. Allora Polinisce se ne va a Argo: cogli Argivi fanno i sette contro Tebe, famosaaa eh! [73] Una guerra tremenda, tutti gli eserciti contro Tebe, contro Eteòcle… Eteòcle sapea ch’era stato maledetto, avea paura, entra dentro Polinisce, fanno un combattimento, s’ammazzan tutti [74] e loro due s’ammazzano uno coll’altro, zzzaaa! [75] Morti tutt’e ddue, dall’odio che avevano l’uno pe’ ll’altro. Li mettono nel rogo, si odiavano talmente tanto che quando dettero foco a il rogo, le fiamme del rogo si divisero ‘n due, una da una parte e una da cquell’altra… Porca! ‘Na bellezza di questa cosa! E così Dante sci disce, ecco fa un, una scitazione colta, bellissima però, di, di di questo odio, proprio di questi du’ fratelli. Allora, dove s’era rimasti?…

Chi per credulo candore disponesse del dvd, della costosa serie del Tutto Dante, relativo al XXVI Canto, verifichi pure le ciance sgrammaticate e irrefrenabili di Benigni che sono state qui trascritte, il più possibile fedelmente e vicine alla pronuncia dialettale del comico, e le confronti con la rapida e chiara spiegazione che segue:

Quante sono le lucciole che d’estate, allorché le giornate sono più lunghe e dunque l’astro che illumina il mondo ci mostra per un maggior numero di ore la sua faccia, il contadino che si riposa su un’altura scorge in basso, nella vallata – forse proprio sui campi dove egli svolge il suo lavoro di vendemmia e di aratura – nell’ora crepuscolare in cui la mosca lascia il posto alla zanzara, tante erano le fiamme che risplendevano nell’ottava bolgia, come io potei vedere non appena giunto là dove appariva il fondo della valle.
Come Eliseo, che si vendicò facendo divorare dagli orsi i ragazzi che deridevano la sua calvizie, vide la partenza del carro del profeta Elia, quando i cavalli si slanciarono dritti verso il cielo, in modo tale che non poteva seguirli con lo sguardo se non vedendo altro che una fiamma salire in alto come una piccola nuvola, così ogni anima si muove nella profondità della bolgia, perché nessuna mostra ciò che la fiamma ha rapito e nasconde: ogni lingua di fuoco un peccatore.
Io me ne stavo tutto ritto sul ponte, a guardare giù, tanto che se non mi fossi afferrato a una sporgenza della roccia, sarei precipitato anche senza essere stato urtato. La mia guida, che mi vide tutto intento alla scena disse: “All’interno delle fiamme sono i peccatori; ciascuno di essi è circondato dal fuoco da cui è arso”. Dante risponde: “Maestro, il fatto di aver udito le tue parole mi rende più sicuro, ma già ero del parere che fosse così e già desideravo chiederti: chi è nascosto in quella fiamma che alla sommità viene divisa in due corni, tanto che sembra alzarsi dal rogo nel quale vennero bruciati i corpi di Etèocle e Polinice? (Cfr. G. Petrocchi – A. Ciotti, La Divina Commedia, R.A.D.A.R. 1969).

Naturalmente queste righe poco si prestano allo stile commerciale ed “emozionante” (tutti giustificano tutto appellandosi alla capacità di emozionare che Benigni possiederebbe), ma purtroppo ciarlatano, dello show di piazza e di tv allestito dalla scaltrezza dell’attore toscano. La gente non vuole SAPERE, ma solo divertirsi. Anche per questo il mondo va come va.
È il caso tuttavia di proseguire, perché troppi “odono” Benigni, pochissimi lo “ascoltano”, nessuno lo… legge, come è possibile fare attraverso la mia trascrizione, sillaba per sillaba. Solo in questa modalità appaiono evidenti e inconfutabili la sua grossolana incompetenza e l’oscurità del suo eloquio “disturbato”.

Rispuose a me… Chi cc’è lla dentro? Gli disce, no!? E Virgilio gli disce: “Là dentro si martira / Ulisseee e Dïomedee…” Ulisseee, aooh! Ulisse, ragazzi, ma è…! E Dïomede, e così insieme / a la vendetta vanno come a l’ira… isce vanno ‘nsieme, Ulisse e Diomede, siccome erano andati insieme all’ira di Dio, perché con le loro frodi l’avevano fatto arrabbiare, alla vendetta di Dio sono insieme lo stesso, stanno insieme, ecco. Eee, e dentro da la lor fiamma si sgeme, qual è il peccato? Si sgeme [76] l’agguato del caval che fé la porta / onde uscì de’ Romani il gentil seme, il cavallo di troia lo conosciamo tutti, però lì da, poi dal cavallo di Troia poi uscì Enea, po’ Anchise eccetera e venne fuori l’Italia, quindi… [77] Bisognerebbe anche essergli grati da un certo punto di vista, no? [78] Se si pensa anche che in fondo anche l’avvento, la venuta di Cristo è un po’ in positivo, non con frode, ma ccon amore, una spescie di cavallo di Troia messo dentro alla Terra per aprirsci la grazzia, disciamo, per indicarci il Paradiso, quindi è anche quello, ovviamente ha quasi un significato simbolico, si potrebbe azzardare, no? [79] Piangevisi entro l’arte per che, morta, ci si piange l’arte vol di’ la frode, eh, l’astuzzia, l’arte per che, morta, ci disce tutti i peccati che hanno fatto, Deïdamìa ancor si duol d’Achille, Deidamia era la moglie d’Achille; Achille s’era vestito da ddonna perché la su’ mamma non lo volea mandà a ffa’ lla guerra, s’era vestito da ddonna Achille e andò su un’isola, a Sciro; il su’ re, la figliola del re s’innammora d’Achille, hanno anch’un bambino ‘nsieme. Ulisse ha bisogno d’Achille pe’ lla guerra di Troia, sa cch’è vestito da donna là, va llì con delle armi, le butta ‘n terra e fa: “Porca, sci attaccano!”. Achille, che è un guerriero, vestito da ddonna piee: “Puttana de la miseria!” prese la spada… disse: “Eeeeh, preso, bischero, ‘ndiamo!” e lo portò con sé [80]. Questo è… Deidamìa col siluò [81] dd’Achille, e Deidamìa, ch’era la su’ moglie [82] e che lo amava ci restò parecchio male. Quindi Deidamìa ancora piange l’astù, pe’ vvia dell’astuzia di Ulisse, e del Palladio pena vi si porta, il Palladio è Pallade Atena, che era u la, la statua caduta dal cielo, ‘mprovvisamente cadde dal cielo la statua di Atena, protettrisce di Atene, ma anche di Troia, e disse: “Finché c’è la mi’ statua qua dentro, nessuno siete ‘nvincibili”. Di legno era e Pallade Atena era non si poteva toccare, era un sacrilesgio divino, e Ulisse e Diomede, travestiti da mmendicanti, di notte, con dell’astuzia riuscirono a portà vvia anche quella, aanche quella [83]. E del Palladio pena vi si porta. E Dante gli disce: – sentite l’ansia, eh! senti… - S’ei posson, «S’ei posson dentro da quelle faville, da cquel fuoco, parlar», diss’ io, «maestro, assai ten priego / e ripriego, che ‘l priego vaglia mille, mille volte! Non gli ha mmai fatto così Ddante, ma perché? che non mi facci de l’attender niego, non mi far aspettare, fin che la fiamma cornuta qua vegna; quella fiamma a du’ punte, vedi che del disio ver’ lei mi piego!», sci avea un desiderio di parlacci, incredì, infinito, infinì, ‘un resisteva, ma pperché non resiste? Ttate a sentire. Ed elli a me: Virsgilio gli fa a Dante «La tua preghiera è degna / di molta loda, e io però l’accetto; / ma fa che la tua lingua si sostegna [84] stai zzitto! Gli disce: “Stai bbono!”. Lascia parlare a me, qui non si tratta mica di Vanni Fucci, i ro i r Rusticucci… qui sc’è Uliissee, ragazzi, Ulisse e Diomede, ma soprattutto Ulisse. Disce Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto / ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi, schivi poiché fur greci, forse del tuo detto» [85]. Dante non aveva ancora scritto la Divina Commedia, ‘n lo conosceva nessuno. Se du’ Greci, Ulisse sentan parlà ‘n toscano, Ulisse disce oh! Non lo sente neanche. Scioè no proprio non sci pensa neanche, quindi, e poi i Gresci consideravano, durante ‘l Medioevo, chi non parlava greco considerato barbaro. Ne quindi, Ulisse poi alla sua epoca chi non parlava Greco era un barbaro, non avrebbero mai ascoltato un dialetto in volgare [86], così, no avreb, e Virsgilio spera che forse ascoltino lui, eh! [87] Attensione, quindi son du’ spiriti eccelsi. Lascia parlare a mme! Poi che la fiamma fu venuta quivi, perché giravano, hosì, pfu fuu… ma voi immasginate questa cosa immensa, eh!, pff fffffssfff [88], che gir… dove parve al mio duca tempo e loco, quando a Virgilio gli parve sgiusto, in questa forma lui parlare audivi: / «O voi che siete due dentro ad un foco, / s’io meritai di voi mentre ch’io vissi, / s’io meritai di voi assai o poco per li alti versi… quando nel mondo li alti versi scrissi… Nun vi movè… gli disce se io, se voi mi conoscete un po’, io son Virsgilio, sono un poeta, una ch’ha scritto li alti versi vuol dire una tragedia [89], parla anche di loro, eh, Virgilio, ne parla quindi loro… questa è una bella notizia: può darsi che nell’inferno si legge [90], si sa qualcosa che… dico, uno sci va, meno male, ‘nsomma, qualcosa si può ffare è già una bella notizia. E disce: quando nel mondo gli alti spera… che con l’opera che ha scritto, l’Eneide, dove si parla anche di loro, sc’è Enea, sebbene sia naturalmente un loro nemico, però si parla, scioè se so’ stato bravo, sembra… se un minimooooe cche que quello che v’ho dato eh, disce nun vi movete; ma l’un di vo… no “un di voi” l’un di voi, a lui gliene interessa uno, vuole che parli Ulisse, l’un di voi dica / dove per lui… questi son versi importantissimi, eh, dove per lui perduto a morir gissi, gissi! Voglio sapere, l’un di voi dica, non si sa come Ulisse è morto. Oooo, Dante non codiscè, non conosceva Omero, non conosceva sapeva di Omero, ma non aveva mai letto l’Odissea, quindi lo sapeva da Ccicerone, pe’ sentito dire, da Ovidio, certe cose daa da Vvirgilio, ma non l’aveva letta, gliel’aveva(n) rraccontata e sapeva che era il più grande poeta di tutti i tempi che guarda caso l’ha ssuperato. Ora, naturalmente la fine di Ulisse non si sa, ritorna a Itaca, come tutti sappiamo, e poi non si sa più cos’ha ffatto… non è che uno come Ulisse può morì di vecchiaia. E Dante se l’è inventata, come se ne inventa tante. La, lui s’è inventato tante fini, la fine di tante persone che non sappiamo, come il Conte Ugolino, come Francesca e Paolo. Questa è memorabile, immensa! State a sentì. Vuole sapere Virsgilio l’un di voi dica / dove per lui, per causa sua, per questo spirito audace, perduto a morir se n’è andato, gissi, gissi. Ora qui sc’è… Lo maggior corno, sc’è una differenza fra du, fra due peccatori, un corno è più alto e uno è più basso, Ulisse è più alto e Diomede conta un po’ meno: che sempre le differenze anche, anche tra i peccatori, eh! [91] Lo maggior corno de la fiamma antica /
cominciò a crollarsi
, quindi s’è fermato, il richiamo di Virsgilio Ulisse ha ddetto “quasi quasi mi fermo”, s’è fermà [92]. Lo maggior corno de la fiamma antica / cominciò a crollarsi mormorando, / pur come quella cui vento affatica… questa è musica nel senso, parte in levare la cosa, eh… attensione: intanto sc’è un borbottìo, non possono parlare, lo maggior corno de la fiamma antica / cominciò a crollarsi mormorando, / pur come quella cui vento affatica, quando una fiamma sc’è il vento che la sbatte fa ffu, ffum ffum, ffu ffu, ffu ffu [93], chee avete visto quando il vento che riprende riprende il fuoco, si spegne e riprè, e va vverso Virsgilio, quindi sta cominsciando a parlare [94] è un momento straordinario, pur come quella cui vento affatica [95], indi la scima qua e là mmenando, come il vento ha étto, ffu, ffum, ffu ffum, ffum, che gli va avanti, come fosse la lingua che parlasse, ogni endecasillabo è… perfetto, senti… gittò voce di fuori e disse: “Quando… disse proprio “quando”, ecco il levare… Disce quando… il verso dopo è quando / mi diparti’ da comincia a raccontare Ulisse, ma l’endecasillabo finisce a quando, che è un gong nella nostra anima, parla Ulisse, e con quest’ansia che ha avuto Dante si può svenire, comincia sgià a sentirsi la trasgedia di Ulisse, sentite cosa disce, eh! indi la cima qua e là menando, ffssff, come fosse la lingua che parlasse, / gittò vosce di fuori… parla Ulisse e disse: “Quandooo / mi diparti’ da Circe, quando andò via da Circe che sottrasse / me più d’un anno là presso Gaeta [96], / prima che sì Enëa la nomasse, Enea chiamò Gaeta in onore della sua balia Caieta, chiamò Gaeta il porto di Gaeta, e Ulisse con Cirsce stava lì, a Gaeta, però lui disce prima che nel lu, lu’ sc’è stato prima, ovvamente [97], qui va, Ulisse non disce QUANDO, Ulisse parla piano, riesce appena a parlare… quando / mi diparti’ da Ci così parla, si sente la sua vosce come appena, viene propo dalle profondità, eh! [98] Quando Cirsce li lasciò andare che l’avea trasformati tutti, tutta la storia d’Ulisse la sappiamo [99], lui tornò a Itaca [100], e disce: né dolcezza di figlio, il suo figlio, né la pièta / del vecchio padre né suo padre [101], né ‘l debito amore / lo qual dovea Penelopè far lieta, tutta la sua famiglia, Telemo, utti i su’ figliolo, il su’ babbo, e Penelope, che quanto ha ffanto l’ha aspettato, quanto l’ha amato, tutte queste cose, disse, vincer, non poterono vincere, vincer potero dentro a me l’ardore / ch’io ebbi a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore… Attensione a questo verso, ora, disce ma mmisi mme, non disce mi misi, misi me per l’alto mare aperto, prese se stesso, così, e si mise, con una forza perché per vincere gli affetti e l’amore del padre, del figlio, della moglie, sacri affetti, aspetta, ma lu’ non è andato via subito, aspettate, eh, si prese, proprio così, e si mise, per i, per il desiderio di conoscere chi ssiamo, cosa sc’è, i vizzi umani e il valore, voleva sapere, sapere. ma mmisi me per l’alto mare aperto / sol con un legno, un legno vuol dire una piccola imbarcazione, una imbarcazione, e con quella compagna quella compagnia, quella compagna / picciola, erano rimasti pochi i suoi compagni di viaggio, quelli che ci avea fatto tutta l’Odissea [102], e con quella compagna… sentite gli enjambement, e con quella compagna / picciola ogni volta si… è come un’onda del mare che va sull’altra, fa ufff frffff… oufff frffff [103] e, e sta andando verso una tragedia; con quella compagna picciola / da la qual non fui diserto. L’un lito e l’altro, un lito, unanana costa da una parte e l’altra, vidi infin la Spagna, la Spagna, tutta la Sgiografia del Mediterraneo / fin nel Morrocco, arrivarono nel Marocco, là i… e l’isola dei Sardi, la Sardegna, ma la bellezza è che disce cose che noi conosciamo così bene, questa è una cosa meravigliosa, / e l’altre che quel mare intorno bagna. / Io e’ compagni, eccoo, eravam vecchi e tardi, erano vecchi, quest faa, erano stati a Itaca tanto, è come se si fossero guardati, ogni sgiorno amando le loro famiglie, a un scerto punto si sono guardati passando e qualcuno con gli occhi avesse fatto così, come se Ulisse gli aesse fatt…: “S’andare… si vaaa…”, ogni sgiorno, “si vaaa”, e avessero deciso il fatto che sono tutti ormai vecchi [104], io e’ compagni eravam vecchi e ta ‘ndo uno disce “un giorno piglio e vadov, era propo e si guardava… vecchi e tardi / quando venimmo a quella fosce stretta / dov’Ercule segnò li suoi riguardi / acciò che l’uom più oltre non si metta; le Colonne d’Ercole, allo Stretto di Sgibilterra, nessuno può oltrepassarle, era un giudizio divino, da qui in là, Ercole è considerato nella mitolosgia quasi come Cristo, eh, come, come l’avvento di Cristo, e nella descima fatica, i buoi di Sgerione, Gerione è un mostro con tre teste dal ventre in su [105], lui glieli piglia, perché pe’ diventare immortale deve ve e tra lle i tra i parerga, quan quando fasceva una fatica fasceva qualcosa ‘n più, visto che c’era [106], Ercole, mise le Colonne d’Ercole, perché Giove gli disse: “Oltre in là” Dio… gli disse, in là, nella nostra mitolosgia cristiana [107], “oltre queste colonne non può andare nessuno”. Ma attenti alla bellezza! Perché lo disce ora? Quando disce io e i compagni eravam vecchi e tardi dov’Er, venimmo dov’Ercole segnò, la loro età, loro sono arrivati alla loro Stretto di Sgibilterra della loro vita, scioè sono al limite della mor, sono, sono vecchi, allora era l’ultima speranza, eh. E quello co lla grandezza di Dante è che si sente che c’è qualcosa. Lo disce lì: io e i compagni eravam vecchi e tardi / quando venimmo a quella foce stretta / dov’Ercule segnò li suoi riguardi / acciò che l’uom più oltre non si metta; sono loro, alle Colonne d’Ercole della loro vita, al cammino estremo, al punto estremo [108]. Da la man destra mi lasciai Sibilia, Siviglia, moderna, da l’altra già m’avea lasciata Setta, Caieta, Siviglia a destra e Caieta… e Ceuta, Caieta, e Ceuta a sinistra, in Affrica [109], e… Ulisse fa un discorso, perché lì sono alle Colonne d’Ercole, se oltrepassa quelle ha oltrepassato ciò che Dio ha posto come limite eterno e invalicabile e inoppugnabile. Ed ecco che Ulisse fa un discorso. “O frati,” dissi, fratelli, “che per cento milia perigli per cento milia pericoli siete sgiunti a l’occidente, all’estremo limite do… a questa tanto picciola visgilia / d’i nostri sensi ch’è del rimanente lo ridisce, sci abbiamo, a nostra tanto picciola visgilia, una piccola visgilia dei loro sensi, pen sentite la bellezza, la poesia di questo verso, la visgilia piccola dei loro sensi, la visgilia dei nostri sensi, quando i nostri sensi se ne andranno per sempre, è la visgilia dei nostri sensi, che è del rimanente, rimane poco, non vogliate negar l’esperïenza, / di retro al sol, retro, l’or perché l’orient qua dove siamo noi è il nostro emisfero sorge il sole, va giù in occidente isce “andiamo a vedere cosa sc’è dietro al sole,  di retro al sol del mondo sanza gente. [111] / Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza, con la a [111], canoscenza, prendeva da tutti i dialetti, questo sci ha un po’ di Sud, che gli dà ancora più forza, s’attacca proprio la ccanoscenza il discorso che fa. Adesso vediamo Dante ha usato… [112] quello che osa Ulisse perché ci attrae così? Dante ha osato ciò che nessuno, ha osato più di Ulisse, Ulisse ora varcherà le Colonne d’Ercole che Dio ha ddetto: “Questa conoscenza non si può toccare”, più che nel Paradiso terrestre a Adamo ed Eva, ma Ddante ha vvalicato le Colonne d’Ercole più potenti d’Ulisse, Dante ha osato giudicare al posto di Dio! E in quell’epoca là, eh, lui ha scelto chi mmandare in inferno e in Pa, e lui sente questo e sente il terrore della vendetta divina (ch)e gli dice: “Ma ccome hai osato metterti al mio posto? Ha osato mettere la donna che gli garbava a lui, la sua compagna di strada, seduta accanto alla Madonna e a Gesù Ccristo, una che si chiama Beatrisce Portinari accanto alla Madonna, e tutto il mondo sci crede! [113] Ha osato ciò che nessuno mai prima aveva osato. Ha fatto un volo enormemente più forte, più folle di quello d’Ulisse, ecco perché teme, e quel volo, in quella faccia di Dante c’è la nostra faccia, noi stessi, tante volte osiamo di osare, e sentiamo che lo potremmo fare, e se la grazzia, la fede non cii… la fede, quella è per Dante, ma la grazzia, la virtù non ci sorregge, saremmo perduti per sempre; questo lo sentiamo che dentro di noi c’è qualcosa che nessuno può ffermare, di incalcolabilmente straordinario [114]. Allora disce Li miei compagni fesc’io sì aguti, i miei compagni da ques con questa orazion picciola, al cammino, / che a ppena poscia li avrei ritenuti; rimase stupito lui stesso. I suoi compagni con questa semplicissime parole, non sono, non è che ha ddetto chissà che, sono semplici e profondissime, meravigliose! E disce che, sentito questo discorso, volta nostra poppa nel mattino, la poppa è il dietro, verso oriente, verso est, verso il mattino, sentite l’im è impressionante, de’ remi fascemmo ali al folle volo, quest’è un verso, e neanche i più moderni poeti possono eguagliare [115], de’ remi que, un folle volo, sanno che stanno andando verso la morte, osano, osano andare in faccia a Dio. De’ re, per la conoscenza, per la grandezza della virtù: voglio sapere! De’ remi facemmo ali al folle volo, diventarono delle ali i remi, pensate, la similitudine in una parola [116], fa impressio, è ‘mpressionante. Sempre acquistando del lato [117] mancino, sempre andando verso sinistra, quindi andavano come a, disciamo, verso sud-ovest, ecco, con… rivolta la poppa verso oriente, la la barca sta andando oltre lo stretto di Sgibilterra così, nell’osceano eeem eee Atlantico, in un mondo che nessuno ha mmai visto, siamo nel milleduscento, milletrescento… Tutte le stelle sgià de l’altro polo, è sempre notte! Che anche questo ìnscita [118] alla trasgedia, de l’altro polo che nessuno ha mmai visto, nessuno è mai stato nell’altro emisfero, che è molto più carico di stelle, questo lo sapevano, è enormemente più carico di stelle l’altro, eh! [119] Tutte le stelle sgià de l’altro polo / vedea la notte, e ‘l nostro tanto basso, / che non surgëa fuor del marin suolo. Scioè l’orizzonte del nostro emisfero stava scomparendo [120], un’impresa che nessuno avea mai fatto, eh! Siamo duscento anni prima di Colombo, nessuno sc’era mai stato [121]. Lui descrive, Dante. Cinque volte racceso e tante casso, per cinque volte si è riacceso e spento, casso / lo lume era di sotto da la luna, / poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo, son cinque mesi che viaggiano [122], sc’è stato cinque pleniluni, scinque volte racceso e tante spento, e tante casso, lo lume, quindi son cinque mesi che remano con delle ali, pensate la bellé, l’immasgine meravigliosa, vuròn, vuròn, con la, de’ remi fascemmo ali al folle volo, andando verso, versoo sud-ovest, quando n’apparve una montagna, bruna / per la distanza, e parvemi alta tanto / quanto veduta non avëa alcuna. È la montagna del Purgatorio, sono arrivati proprio in faccia a Dio, in faccia a Dio, che Dante poi vedrà. Noi sci allegrammo, perché videro terra, e tosto tornò in pianto; ma ssubito piangemmo, perché?… ché de la nova terra un turbo nacque, dalla terra nova arrivò un turbo di acqua [123], un’onda immensa, / e percosse del legno, della barca, della nave, il primo canto… (qui Benigni produce un suono labio-gutturale non fedelmente trascrivibile, per imitare l’impatto)… fuafff, la prese! Tre volte il fé girar con tutte l’acque; con l’acqua la fesce sgirare la nave come un fuscello, per tre volte, a la quarta levar la poppa in suso / e la prora ire in giù, com’altrui piacque, altrui piacque è come piacque a Dio, ma Dio nell’Inferno non si può nnominare, non si può ddire la parola Dio [124]. Allora voi notate Dio che vede questa cosa inaudita, qualcuno che ha osato arrivare fino a lì ee tre volte lo fa girare, fffuun, lo fa affondare, fascendolo sgirare tre volte, e l’ultimo verso, me-mo-ra-bi-le, semplicissimo [125], infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso. Questo è un verso semplicissimo, sc’è una potenza, e c’è il silenzio di Dio… Dio non ha… mosso proprio neanche un ciglio, ha vvisto arrivare questo dove non poteva venire, l’ha ffatto, ha ffatto arrivare un turbo, fffum, infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso, e si crea il silenzio di Dio. Tutto questo sc’è un amore, un mistero, una, una magnifiscenza, una sgenerosità tutta per noi. Quest’è un canto che ha turbato generazioni e generazioni, inesplicabile, tutti si chiedono perché ll’ha mmesso all’inferno, l’inferno d’Ulisse perché voleva conoscere [126], è un grandissimo. Primo perché la trasgedia se fosse in Paradiso ci toccherebbe meno il cuore. Il fatto che stia nel profondo inferno una cosa così, un racconto così, sci dilania, di dolore, e noi la nostra pietà è tutta per lui, è l’umana pietà, che ognuno di noi ha per se stesso, che, e Dante vuol dire teme per sé, perché Dante sci ha ttutta quest’ansia e questo canto ha tturbato generazzioni, sul sapere, sulla conoscenza, sulla virtù, su tutto sciò che di più alto sc’è nel mondo e tutti gli uomini se lo sono ripetuto a mente, per dire io sono questo [127], perché ssse non la sensa la rasgione, sensa la virtù, sensa quella che Dante chiamava fede, e che in Purgatorio lo disce “Matto è chi spera che con l… nostra rasgione / possa trascorrer la infinita via / che trova ‘na sustanza in tre persone. / State contenti, umana sgente, al quia” [128], scioè accontentatevi di quello che potete sapere e… attenti all’ignoto, al mistero, non siate sciocchi da non pensare che non ci sia una parte di cui non sappiamo niente [129], sci può accadere tutto! [130] Tutto sciò che vi dico è infinitamente, è proprio una inezzia per la grandezza, dei versi di questo Canto, la perfezione e l’altezza che dà soddisfazzione far parte del genere umano quando si sentono delle cose così. Adesso io ve lo vado a leggere…
 

Segue una declamazione insopportabile, con voce monotonamente strozzata, se si esclude l’apostrofe iniziale, da film dell’orrore, assolutamente inadeguata, soprattutto per certi passi del Canto (si ascolti ad esempio l’esortazione di Ulisse ai compagni di viaggio, con la voce di un vero e proprio orco che spaventa i bambini! ascolta). Declamazione per giunta macchiata da imperfezioni ed errori, biasimevoli per un pluridecorato al merito letterario e filologico e indecorose per un super remunerato come il comico toscano!

v. 55 e quelli a me invece di rispuose a me
v. 75 poiché fur invece di perch’e’ fuor
v. 82 per l’alti versi che nel mondo scrissi invece di quando nel mondo li alti versi scrissi
v. 92 presso Gaeta invece di presso a Gaeta
v. 95 del dolce padre invece che del vecchio padre
v. 97 dentro me l’ardore invece di dentro a me l’ardore
v. 98 ch’io ebbi invece di ch’i’ ebbi
v. 116 l’esperienza invece che l’esperïenza (senza dieresi il verso diventa decasillabo!)
v. 123 ch’appena invece di che a pena
v. 126 del lato mancino invece che dal lato mancino
v. 131 di sotto de la luna invece che di sotto da la luna
v. 132 poi ch’intrati invece di poi che ‘ntrati

Che cosa possiamo aspettarci da un’epoca che spaccia alla gente questo genere di “cultura” e, cosa ancor più grave, lo decanta e lo premia? Che consacra “divulgatore tuttologo” un comico che può essere soltanto l’emblema di un’Italia superficiale e chiacchierona, priva di reale spessore, che non è più in grado di pesare i valori e sbandiera alfieri vuoti, nemmeno curandosi di considerare gli ormai pochi talenti veri in circolazione o quelli che vivono nell’ombra, scartati dal mercato, che soli potrebbero restituire al Paese lustro e credibilità? Che cosa da un’Italia che non si vergogna di candidare al Nobel i Benigni o i Vecchioni di turno, e che sembra ormai solo paga di vantare il suo nulla?

Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!
(Dante, Purgatorio, VI, vv. 76-78)

 Amato Maria Bernabei


[1] La trascrizione cerca di seguire fedelmente la pronuncia smaccatamente dialettale del Professor Benigni, che ho sempre considerato poco dignitosa per parlare di Dante al pubblico nazionale, e i farfugliamenti a volte incomprensibili. Due degli innumerevoli ed anche più gravi difetti dell’operazione “culturale” del comico.
[2] Lo scrittore Primo Levi (1919-1987) “ha offerto una delle più alte testimonianze sulla tragica realtà dei lager in Se questo è un uomo (1947), dove ha descritto la sua esperienza di ebreo deportato ad Auschwitz; la sua successiva produzione ha indagato il mondo della produzione industriale, volgendosi poi nuovamente al tema delle persecuzioni razziali (Se non ora, quando?, 1982; I sommersi e i salvati, 1986)”. Cfr. treccani.
[3] Nemmeno un anno (22 febbraio 1944 – gennaio 1945).
[4] Solite infondate esagerazioni da spettacolo. Osip Ėmil’evič Mandel’štam (1891-1938) è un poeta russo esponente dell’acmeismo. “Ha condensato la sua poesia, classica, erudita, mitica, antisentimentale, nelle raccolte Kamen´ (“La pietra”, 1913) e Tristia (1922), in cui oscilla fra il patetico e il grottesco, tra stile scultorio ed espressione ermetica. Nel 1934 fu arrestato per aver scritto versi contro Stalin. Arrestato una seconda volta, morì, sembra, in campo di concentramento. Una raccolta, comprendente poesie inedite, fu pubblicata a New York nel 1955” (cfr. treccani).
[5] “Tutti e due nello stesso momento”! Che intende il nostro “cattedratico”? Quando Primo Levi è condotto prigioniero ad Auschwitz, Mandel’štam è morto ormai da cinque anni! Forse il “cólto giullare” voleva dire “in una circostanza analoga”… Forse…
[6] Almeno nel riferire i titoli delle opere Benigni potrebbe evitare la toscanizzazione…
[7] Chiaro, no? In realtà nell’undicesimo capitolo del suo romanzo Levi rivive il Canto di Ulisse come metafora della sua drammatica esperienza nel lager tedesco, come “emblema della  dignità umana che si salva e si fortifica attraverso il desiderio di conoscenza e di libertà” (Dante poliglotta).
[8] In realtà il poeta russo ha scritto un saggio su Dante (Conversazione su Dante, 1930-32) in cui il Canto di Ulisse ha una sua rilevanza solo in relazione all’analisi che egli fa della Commedia, senza alcun rapporto con le chiacchiere di Benigni, come si può evincere dalla lettura del saggio di Carlo Tenuta, Dante in Crimea).
[9] Di straziante, qui, c’è solo l’astrusa “logica” benignesca, un discorso che non sembra avere capo né coda… In sintesi il delirante concetto: “la poesia di Dante è fatta di vette, forse la più alta è l’Ulisse”, non a caso Levi e Mandel’štam “nello stesso momento hanno scritto una cosa sull’Ulisse di Dante” per dire “io sono questo, io non sono questo” “e questa è una cosa che spacca il cuore”. Ragionamento dal rigore kantiano e dalla chiarezza di sorgente! Ascolta il passo più confuso mp3.
[10] Anche in prosa, professore…
[11] Spicciola informazione “wikipediana”. Integriamo, aggiungendo che l’iscrizione, attribuita a Brunetto Latini, suonava così: “…qu[a]e mare, qu[a]e terra[m], qu[a]e totu[m] possidet orbem” (http://www.florin.ms/beth2.html).
[12] Belle concordanze! Nobiltà e grandezza “volava”… Iscrizione distrutto…
[13] Non allude a un endecasillabo “terso”, ma al terzo endecasillabo della terzina! Un corso di dizione non gli farebbe male…
[14] Davvero una pacchiana drammatizzazione, che vorrebbe far ridere!… ma pare che ridacchi solo lui.
[15] Solita “didattica abilità” (grazie anche ad un modo di esprimersi inqualificabile), capace di rendere confuso anche ciò che potrebbe risultare subito chiaro! Il verso ché più mi graverà, com’ più m’attempo si presta a un doppio significato: più tarda sarà la giusta vendetta, più grande, da vecchio, sarà il mio dolore (Fubini); oppure: quanto più sarò vecchio tanto più mi sarà pesante che la mia ansia di vendetta tardi ad essere soddisfatta. La prima è la versione oggi più accreditata.
[16] Cita in modo errato invece del corretto da che pur essere dee.
[17] Sempre peggio! Asserzioni campate in aria, confusione e sgrammaticature gravi. Ascolta mp3.
[18] In un contesto tragico, lo stile dell’Alighieri diventa ancor più raffinato, si fa aulico, a dispetto di quanti sostengono in modo scriteriato che Dante abbia scelto una lingua “popolare” per essere meglio capito!
[19] In Dante non troviamo ch’io non soglio, ma ch’i’ non soglio.
[20] Farneticazioni.
[21] Il testo della vulgata recita “ch’io stessi nol m’invidi”.
[22] Farfugliamento non trascrivibile.
[23] Vere e proprie fesserie, che Dante proprio non ha scritte!
[24] Cfr. nota precedente.
[25] Certamente chi non sa che cosa siano le similitudini ha capito tutto da una spiegazione così limpida!
[26] Ma che dici, professorucolo sprovveduto!?
[27] È solo la quarta volta che ricomincia da capo…
[28] Ancora, in modo sempre più noioso ed errato.
[29] Queste sarebbero le straordinarie ed emozionanti spiegazioni di Benigni? Ripetitività e monotonia assoluta.
[30] Con enfasi benignesca la citazione del “twilight” che scomoda Shakespeare e che “alla mia ignoranza” sembra soltanto un bel vocabolo della lingua inglese…
[31] Il parlare concitato e dialettale è a mala pena decifrabile.
[32] Com’è possibile capire qualcosa in tanta farragine sgrammaticata?
[33] Che banalità bambinesche, per un pubblico che “il professore” pensa proprio demente!
[34] Ancora? Non se ne può più.
[35] Arriva il soggetto, ma non il soggetto… le solite idee chiare! “Lucciole” è complemento oggetto di “vede”, il cui soggetto è “ ‘l villan”… meglio suggerirlo al “professore”…
[36] E questa data da dove spunta? dov’è in Dante? o come la si ricava dai suoi versi? Se Benigni avesse scelto il 21 di giugno avrebbe potuto almeno sostenere che nel solstizio d’estate il sole “tien meno ascosa” la sua faccia rispetto ad ogni altro giorno dell’anno!
[37] Benigni non ci dà mai le fonti. Rimediamo: “Nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più” (P. P. Pasolini, Il vuoto del potere, ovvero l’articolo delle lucciole, Corriere della Sera, 1° febbraio 1975).
[38] Che vuole dire? Al massimo ci sarebbe da meravigliarsi e da spiegare perché Dante accosti il meraviglioso spettacolo delle lucciole al tragico fiammeggiare delle anime dei fraudolenti… Ma che sensibilità e intelligenza letterarie ci possiamo aspettare da un simile esegeta?
[39] Caro coltissimo (così dicono…) professore, il tabacco viene conosciuto in Europa in seguito alla scoperta dell’America, quindi non aggiungere sciocchezze a sciocchezze!
[40] Solita sgradevolissima enfasi nella recitazione.
[41] Che cosa intende dire, Benigni?…
[42] Le bolge è una cosa infinita… Sempre una lingua italiana strepitosa!
[43] Il solito, nauseante, fasullo ritornello…
[44] Pubblica “libri” (per la veste bsogna chiamarli così…) perfino lui!
[45] Primo, soprattutto! Nel secondo Libro dei Re troviamo solo, o quasi, il “rapimento” di Elia.
[46] Come si può concepire e sopportare un simile modo di parlare! “Un antro”… una grotta?
[47] “…ed Eliseo, figlio di Safat di Abel-Michola, ungilo profeta in tuo luogo” (Re, I, 19, 16).
[48] Eliseo stava arando, “Elia passò accanto a lui e gli gettò addosso il suo mantello. Eliseo allora lasciò i buoi e corse dietro a Elia” (Re, I, 19, 19-20). Il racconto di Benigni è come sempre rabberciato e sgrammaticato.
[49] Nella Bibbia non si parla di morte! Elia viene “rapito in cielo” (Re, II, 2, 11).
[50] Ora la narrazione di Benigni si abbandona all’invenzione, all’esagerazione, allo spettacolo.
[51] “Potea” nel testo dantesco.
[52] Erano presso le rive del Giordano!
[53] Semplicemente “un carro di fuoco con cavalli di fuoco”. Tutti i particolari che Benigni sciorina sono gratuiti: il racconto biblico è asciutto: “Se ne andavano essi e andando discorrevano, quand’ecco un carro di fuoco con cavalli di fuoco li separò l’uno dall’altro, ed Elia salì al cielo in un turbine” (Re, II, 2, 11).
[54] Tutte fantasticherie benignesche (per attirare il pubblico ritenuto idiota?…).
[55] (Re, II, 23-25).
[56] Betel.
[57] Quanta confusione!
[58] I racconti della nonna, ricchi di suoni onomatopeici…
[59] Non credo proprio che le fiammelle dei consiglieri di frode “andassero su”: la similitudine dantesca riguarda il “furto”… Come Elia ascese al cielo nascosto dalla fiamma che l’avvolse, così le anime dell’ottava bolgia sono celate dal fuoco che le arde.
[60] Chi niente sa dell’enjambment, che cosa avrà capito? La superba abilità didattica di Benigni ha spiegato un bel nulla! Bastava dire che il pensiero non si conclude con il verso, con la misura ritmica, ma prosegue nel verso successivo, dilatando il respiro dell’endecasillabo, e forse qualcosa di più si sarebbe capito.
[61] “Surto” da surgere  vuol dire qui “dritto”, non assorto! Me ne stavo dritto sul ponte, dice Dante. Assorto, se mai, è nel verso 46, “atteso”.
[62] Dante sembra intento, colpito, ma ansioso lo vede solo Benigni.
[63] Stupore e desiderio di vedere meglio, non ansia.
[64] Sorprendente forse, non meravigliosa! A Benigni, però, piace coinvolgere l’uditorio con questi aggettivi enfatici e non sempre appropriati.
[65] Attento, “teso” alla visione.
[66] Benigni continua a recitare “fochi”, ma la vulgata porta “fuochi”.
[67] Adesso è Dante che voleva chiedere a Virgilio perché è ansioso? Davvero una spiegazione demenziale…
[68] La pronuncia Eteòcle, del “bilaureato” in Filologia Benigni è errata. In Dante l’accento viene spostato in avanti (e indicato) per esigenza metrica (figura retorica di accento che ha il nome di diàstole). La pronuncia greca è Eteoclés, quella latina Etèocles, quella italiana Etèocle (Treccani, Dizionario Enciclopedico Italiano, 1970). Inoltre sarebbe opportuno che un “esegeta” parlasse un Italiano corretto: “sua madre”, non “sua mamma”. Pretendere questo da Benigni, però, è come volere che un sasso dia l’olio.
[69] Chi non conosce la storia credo capisca ben poco!
[70] Secondo la versione sofoclea del “ciclo tebano” (Sofocle, Edìpo re).
[71] Sofocle, Edìpo a Colono.
[72] Ridicola “onomatopea dell’odio”… stile favole della nonna…
[73] Confusione tremenda, infinita, narrata in lingua trogloditica! Sarebbe bastata Wikipedia per raccontare in modo più corretto e chiaro le vicende de “I sette contro Tebe” (tragedia di Eschilo): “Eteocle e Polinice, figli di Edipo, si erano accordati per spartirsi il potere sulla città di Tebe; avrebbero regnato un anno a testa, alternandosi sul trono. Eteocle tuttavia allo scadere del proprio anno non aveva voluto lasciare il proprio posto, sicché Polinice, con l’appoggio del re di Argo Adrasto, aveva dichiarato guerra al proprio fratello ed alla propria patria. All’inizio del dramma, Eteocle appare impegnato a rincuorare la popolazione preoccupata per l’imminente arrivo dell’esercito nemico. Giunge un messaggero, che informa che gli uomini di Polinice sono nei pressi della città, ed hanno deciso di presidiare le sette porte della città di Tebe con sette dei loro più forti guerrieri. È quindi necessario che Eteocle scelga a sua volta sette guerrieri da contrapporre a quelli nemici, ognuno a difendere una porta”… (da Wikipedia).
[74] Il racconto è impreciso e distorto.
[75] Ancora un’onomatopea della nonna!… Per il pubblico sottosviluppato?…
[76] Nella smaccata pronuncia “tosca”! Ascolta. Nulla contro le inflessioni locali, ma perché tutti gl’Italiani devono sorbirsi la squinternata “esegesi” benignesca della Commedia nella non sempre gradevole cadenza dei Toscani? Un buon attore dovrebbe anche far uso di una corretta dizione. Sciocco fare appello alla toscanità di Dante, altrimenti bisognerebbe pretendere una lettura di Pirandello con accento siciliano e la declamazione de I Promessi Sposi con accento milanese!
[77] Dal cavallo di Troia sarebbero usciti Enea, Anchise e l’Italia? non i Greci? Proprio un bel modo di spiegare… Soprattutto se si pensa che l’“onde uscì” dantesco si riferisce alla violata porta di Troia, non al cavallo che vi entrò!
[78] Magistrale lettura critica di un episodio bellico, per giunta leggendario! (Spero sia chiaro a tutti il sarcasmo).
[79] Proprio un farneticante accostamento, che nulla ha a che vedere  con la spiegazione del passo dantesco.
[80] Achille, per volere della madre Tètide, consapevole che il figlio sarebbe morto se avesse partecipato alla spedizione troiana, fu nascosto a Sciro, travestito da donna, tra le figlie del re Nicomede. Nell’isola l’eroe ebbe come compagna Deidamìa (una delle figlie del re; pronuncia greca Deidàmia), da cui gli nacque Pirro, detto anche Neottolemo. Per quanto riguarda Ulisse, egli si travestì da mercante e, per smascherare Achille, portò alla reggia di Sciro abiti femminili e delle armi. Achille non seppe nascondere il suo vivo interesse per queste e si tradì, essendo così costretto a partire per la guerra e ad abbandonare Deidàmia, che ne morì dal dolore (che, morta,… ancor si duol; cfr. Anna Ferrari, Dizionario di mitologia greca e latina, UTET 2002). Dai riferimenti confusi, se non contraffatti, di Benigni, come al solito chi non sa, poco o nulla capisce.
[81] Parola incomprensibile di cui è riportato il suono udibile.
[82] A questo punto il pubblico applaude e davvero non si comprende perché (almeno da un’angolatura logica).
[83] “Ogni speranza dei Danai e fiducia della guerra / intrapresa si fondò sempre sull’aiuto di Pallade. / Da quando l’empio Tidide e l’inventore di misfatti Ulisse, / accinti a strappare dal sacro tempio il fatale / Palladio, uccise le sentinelle del sommo della rocca, / rapirono la sacra effigie e con le mani insanguinate / osarono toccare le virginee bende della dea, / da allora la speranza dei Danai rifluì e si ritrasse / dileguando, infrante le forze, avversa la mente della dea” (Virgilio, Eneide, II, vv. 162-170). Dunque Ulisse e Diomede (figlio di Tidèo) rapirono la statua con la violenza, più che con l’astuzia.
[84] L’imperativo “fa’” è senza apostrofo nel testo dantesco.
[85] Nella vulgata il verso è differente: “perch’ e’ fuor greci, forse del tuo detto”.
[86] Il “dialetto in volgare” mi sembra proprio una castroneria!…
[87] “L’orgoglio e l’alterigia dei Greci erano proverbiali nel medioevo” (Sapegno). Benigni annega nella solita confusione prolissa, zeppa di imprecisioni (e non solo…).
[88] La stupidità “onomatopeica”…
[89] “Alto è l’epiteto della poesia di stile illustre” (Sapegno, La Divina Commedia, Inferno, La Nuova Italia 1986, p. 296). Cfr. Onorate l’altissimo poeta (Inf., IV, 80), di quel signor de l’altissimo canto (Inf., IV, 95), l’alta mia tragedia in alcun loco (Inf., XX, 113). Non quindi “li alti versi vuol dire una tragedia”, come banalmente recita Benigni da sprovveduto, ma un poema, l’Eneide, “tragico” secondo la terminologia dantesca che considera tragedìa il “componimento poetico caratterizzato dalla gravità dell’argomento, dalla sublimità dello stile e dall’eccellenza del linguaggio” (Sapegno, ibidem), come si evince dal De vulgari eloquentia, II, Iv, 5 e 7, e dalle Epistole, XIII, 29).
[90] Bell’indicativo sgrammaticato!
[91] Per quanto la critica tradizionale attribuisca alla più illustre fama di Ulisse la maggiore altezza della fiamma che lo avvolge, io sono propenso a credere che la scelta di Dante sia piuttosto collegata alla gravità e al numero delle colpe e che non ci siano nell’inferno dantesco differenze di trattamento legate all’importanza dei personaggi.
[92] Dante scrive esattamente il contrario: cominciò a crollarsi, cominciò ad agitarsi come una fiamma scossa dal vento. Basterebbe questa sola fesseria per capire la scadente superficialità della preparazione e della prestazione del comico toscano.
[93] Dunque sbatte, la fiamma, non si era fermata! Che confusione…
[94] Spiegazione chiarissima: Benigni aveva appena detto che “non possono parlare”…
[95] Quando il comico ripete i versi tante volte, vuol dire che poco li capisce e ha bisogno di ricordarne il significato…
[96] “A Gaeta”, per la precisione.
[97] Solite parole masticate: “ovvamente”, invece di ovviamente, come spesso Benigni dice “propo”, invece di proprio.
[98] Naturalmente il “grande docente” non spiega perché questi dannati, che hanno tanto “parlato” ingannevolmente nella loro vita, ora per contrappasso abbiano tanta difficoltà a farlo.
[99] Perché dare per scontato che tutti sappiano? Quanti avranno veramente capito quello che Benigni sta dicendo, peraltro in modo così farraginoso e scorretto, visto che non farà notare che nella versione dantesca Ulisse non ritorna ad Itaca, ma dirà il contrario, dimostrando così di non aver capito niente?
[100] Il saputone (pardon, il “profondo conoscitore” di Dante, come troppi credono e sostengono)  scivola… come quasi sempre!
[101] Anche qui si salta una spiegazione fondamentale, quella della “pièta”, della devozione, del reverente affetto che Ulisse avrebbe dovuto dimostrare nei confronti del vecchio padre. Meglio dilungarsi in inutili ciance e ripetizioni che precisare le cose importanti.
[102] Ignorando le rozze ciarle benignesche, sfornite di competenza, possiamo considerare che il “misi me” ha intanto una giustificazione metrico-musicale che l’allitterazione ma-misi-me sottolinea con efficacia (mentre sarebbe stata davvero cacofonica la soluzione “ma mi misi per l’alto mare aperto”); in secondo luogo il “misi me” non è un afferrarsi, un costringersi, quanto un esporsi, un mettersi nelle condizioni precarie di affrontare l’ignoto, “l’alto mare aperto”, con una fragile imbarcazione e un manipolo di compagni. Ignora poi, il Benigni, non solo che in Dante Ulisse non fa ritorno ad Itaca, ma pure che, sul piano allegorico, al lodevole svincolarsi dagli impedimenti dell’istinto (Circe) e degli affetti (padre, moglie, figlio) in vista di un fine superiore, l’eroe greco non fa corrispondere una virtuosa brama di conoscenza, rivolgendosi soprattutto alla realtà immanente (…a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore) e trascurando la sfera dello spirito e la luce della Grazia, con inevitabile, conclusiva sconfitta.
[103] Sempre queste odiose onomatopee per nipotini estasiati… senza contare che chi non ha mai sentito parlare di enjambement proprio nulla capisce, alla faccia dell’esegesi popolare!
[104] Interpretazione davvero gratuita per non dire balorda! Come può essere che Ulisse e i compagni partano da Itaca (dove secondo la versione dantesca, peraltro, non erano mai tornati) già vecchi!? Dante parla de “la pièta del vecchio padre”, e Laerte non avrebbe potuto essere ancora vivo se fosse stato vecchio Odisseo. In realtà l’Alighieri scrive Io e’ compagni eravam vecchi e tardi / quando venimmo… Ignorando il nostos omerico (il ritorno di Ulisse ad Itaca), Dante immagina che, dopo aver lasciato Gaeta, l’eroe greco, sordo ai richiami degli “affetti contingenti” (Sapegno), nonostante non fosse più giovane, intraprenda con i compagni il viaggio della conoscenza, “a divenir del mondo esperto”; viaggio evidentemente molto lungo (versi 103-105), che porta ‘i naviganti del sapere’ alle Colonne di Ercole in età ormai avanzata (eravam vecchi e tardi / quando venimmo a quella foce stretta). Le divagazioni demenziali del comico, figlie dell’incompetenza più lampante, sono perciò tutte vuote e fuori luogo.
[105] Meno male che le teste partono dal ventre! Il comico vuole dire che il mostro ha tre busti, e conseguentemente tre teste!
[106] Confusione sovrana: mi sarebbe piaciuto chiedere all’uditorio del Tutto Dante che cosa sono i “parerga”: da quello che Benigni “spiega”, poco o nulla s’intende… Dirò semplicemente che qualche studioso sostiene che, come fatica preliminare – non richiesta, ma utile per accedere alla terra dei buoi di Gerione – alla decima, Èracle abbia separato i due monti di Calpe ed Àbila, creando un varco nel mare (lo Stretto di Gibilterra) e ivi stabilendo per tutti il limite della navigazione (non plus ultra). Sotto il nome di parerga sono conosciute tutte le fatiche dell’eroe greco non previste nelle dodici richieste dal re Euristeo.
[107] Sinceramente non capisco che cosa il chiacchierone stia farfugliando!
[108] Non si comprende la pregnanza di questa “intuizione”, tanto meno la coerenza, in relazione al pensiero dantesco. Benigni fa coincidere il non plus ultra delle Colonne con il non plus ultra della vita, che a questo punto risulterebbe vanamente spesa nella ricerca della conoscenza. Un veto di transito che simboleggia i limiti delle umane possibilità non può coincidere con il termine di un ciclo biologico, che non identifica alcun divieto, se non la scadenza della durata di un processo naturale.
[109] Eh, eh… lettura errata degli appunti sul leggio…
[110] Insomma, ciarle a parte, Ulisse dice ai compagni: “Fratelli, non vogliate negare l’opportunità di conoscere l’emisfero che ci è ignoto, a questa breve vigilia di vita sensibile che ancora ci rimane”. Punto e fine.
[111] Ci sono tuttavia codici che riportano la “o” e critici che la preferiscono. Questione comunque non sostanziale per il senso e per la poesia.
[112] La “o” di Benigni è tanto stretta da risultare una “u”.
[113] Ma che stupide enfasi! Nemmeno se Dante avesse potuto farlo sul serio anziché in una finzione letteraria, per di più intesa a tracciare un cammino di redenzione dell’anima dalla selva del peccato all’amor che move il sole e l’altre stelle.
[114] Chi capisca qualcosa di questo “profondo” spunto critico, abbia la compiacenza di spiegarmelo!
[115] La modernità nell’arte non è come la tecnologia, non basta certo essere moderni per superare un artista nella sua arte! E comunque le graduatorie da spettacolo di Benigni sono sempre fastidiose.
[116] Non si tratta di similitudine, quanto di metafora, se non di analogia, l’inverso del virgiliano remigium alarum, che allude al volo di Dedalo nell’Eneide (VI, 19).
[117] “Dal lato”, naturalmente…
[118] Anche come proprietà di linguaggio il nostro è spesso carente.
[119] Anche astronomo! Ad occhio nudo, caro “SoTutto”, possiamo vedere circa 6.000 stelle, equamente ripartite fra i due emisferi. La divulgazione dell’ignoranza, però, non conosce frontiere.
[120] Non è l’orizzonte che “stava scomparendo”, ma l’emisfero boreale che a poco a poco era caduto sotto il nostro orizzonte!
[121] Considerazione ripetitiva e qui assolutamente fuori luogo.
[122] Mi pare di poter pensare che i cinque mesi non si riferiscano alla durata dell’intero viaggio, che dovette essere ben più lungo per quanto si evince dai versi 103-105, ma dal discorso di Ulisse ai compagni, dalla decisione di affrontare il supremo rischio.
[123] Un turbine di vento.
[124] Barzelletta benignesca sfoderata ad ogni occasione, facilmente contestabile! Basteranno degli esempi, in molti dei quali sono Dante e Virgilio che nominano Dio, sicché qualcuno potrebbe obiettare che non si tratta di dannati! Proprio per questo rimproveravamo a Benigni la genericità, che esclude ogni possibilità per chiunque di pronunciare il nome di Dio all’Inferno.
A onor del vero nel sito http://www.gliscritti.it/approf/2007/saggi/limbo270707.htm si legge: «Il dramma dell’Inferno dantesco – e del suo limbo – è precisamente questo, che non si può pronunciare il nome di Dio, che non si può avere comunione con Lui. Si sopravvive, ma senza di Lui! Si può dire “un possente”, ma non si può dire “Gesù Cristo”». Però si legga attentamente quanto segue: Poeta, io ti richeggio / per quello Dio che tu non conoscesti (parla Dante: Inf., I, 130-131); né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro (parla Virgilio: Inf., III, 39); quelli che muoion ne l’ira di Dio (parla Virgilio: Inf., III, 122); non adorar debitamente a Dio (parla Virgilio: Inf., IV, 38); che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio (parla Virgilio: Inf., VIII, 60); Colui fesse in grembo a Dio / lo cor che ‘n su Tamisi ancor si cola (parla il centauro Nesso: Inf., XII, 119-120); le mani alzò con amendue le fiche, / gridando: «Togli, Dio, ch’a te le squadro!» (parla Vanni Fucci, ladro: Inf., XXV, 2-3). Da ultimo prendiamo in considerazione i seguenti due versi Bestemmiavano Dio e lor parenti (Inf., III, 103); bestemmian quivi la virtù divina (Inf., V, 36): ci risulta piuttosto difficile immaginare che i dannati possano bestemmiare Dio senza pronunciare il suo nome! L’esempio che si riferisce al ladro Vanni Fucci indica poi inconfutabilmente che la regola enunciata da Benigni non è assoluta. I suoi vari “pf pfe” sono perciò i soliti espedienti fumettistici che banalizzano, e non sono certo in grado di riflettere, di approfondire, di argomentare: noi ci sforziamo perlomeno di indagare… il comico Professore può solo ripetere “la poesia a memoria”, e nemmeno troppo bene!” (Amato Maria Bernabei, O Dante o Benigni, Arduino Sacco Editore, Roma 2011, p. 145, nota 79).
[125] Semplicissimo che vuol dire qui? Che avrebbe potuto scriverlo anche Benigni?… (Ironia, naturalmente).
[126] Che panzane, tutte! La più grande è che Dante avrebbe condannato all’inferno Ulisse per la sua sete di conoscenza! Il fatto è che l’eroe greco è nella bolgia dei consiglieri di frode, per cui non è certo il suo ardente desiderio di sapere che Dante “punisce”. Ma per “fare milioni” basta affabulare, imbonire, il resto conta poco.
[127] Chiacchiere vuote, enfasi declamatorie, per condire un vero e proprio “analfabetismo critico”.
[128] Citazione scorretta (che tiene una sustanza in tre persone, non che trova!), pensiero sconclusionato: senza la ragione, senza la virtù, senza la fede “e che in Purgatorio lo disce”… che succede? Che Benigni cita, con errore, dei versi che esortano a non presumere che la ragione possa permettere di conoscere i disegni divini… Come dire “senza la ragione, senza la virtù, senza la fede… accontentatevi di quello che potete sapere”… Ovvero?
[129] Caro “dotto Benigni”, non siate sciocchi da non pensare significa che non dobbiamo non pensare, cioè che dobbiamo pensare! E continuando: dobbiamo pensare “che non ci sia una parte di cui non sappiamo tutto”, dobbiamo dunque credere che non esiste cosa che noi non sappiamo! Hai detto esattamente il contrario di quello che dovevi dire!
[130] Che eloquio balordo, che contorsioni, che confusione!

 

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