Viviamo anni in cui il potere si diverte a risolvere il problema della parità dei sessi giocando con le vocali, come se modificare una grammatica asessuata (grammatica i cui generi non dispongono cioè di genitali: volpe è femmina grammaticalmente ed indica, guarda caso, anche il maschio!) risolvesse il problema degli stupri, degli omicidi di femmine (pardon dei femminicidi, in contrapposizione ad un maschicidi da creare), la questione del lavoro femminile sottopagato e così via. Del resto è ben più rapido (ma ben meno importante) intervenire su una “o” sostituendola con una “a”, che risolvere gli altri annosi, veri, quanto scomodi, problemi.
Così la femmina continui pure a subire stalking, mobbing, e stupidaggining del genere, nonché a percepire stipendiuccing, e si senta appagata di poter essere finalmente chiamata sindaca, ministra e magari, con un orrore grammaticale, perfino presidenta (e perché no? passanta, ipovedenta e simili).
Meglio abbandonare il sarcasmo e rendersi conto che da secoli per la donna nulla cambia, come risulta chiaro dall’orrore del mito greco di Procne e Filomèla.
Nella guerra contro il re di Tebe Làbdaco, il re dei Traci Terèo aveva prestato aiuto al re di Atene Pandìone, il quale, per riconoscenza, gli aveva dato in moglie la figlia Procne.
«Tereo, però, desiderava anche l’altra figlia di Pandione, Filomela; la sua storia assume, da questo punto in avanti, connotazioni infernali. Per riuscire nel suo intento, infatti, egli ritornò ad Atene e diede a Pandione la notizia della morte di Procne, chiedendo al suo posto di avere Filomela. Pandione gliela concesse, e Tereo la portò nel fitto di una foresta, dove da quel momento la tenne come prigioniera, impedendole di comunicare con l’esterno, a sua completa disposizione; per evitare che potesse parlare, non esitò a tagliarle la lingua. Per completare la sua messinscena, Tereo fece credere a Procne che Filomela fosse morta.
Ma benché isolata dal mondo, Filomela, che era un’abile tessitrice, riuscì nella sua prigione a tessere un abito sul quale erano rappresentate le scene della sua storia; riuscì poi a far avere il suo lavoro alla sorella. Procne seppe così che Filomela era viva e riuscì a trovare il modo di liberarla.
In occasione delle feste in onore di Diòniso, un corteggio bacchico si diresse nel folto del bosco, capeggiato dalla regina. Essa potè avvicinare Filomela e farla entrare nella schiera senza che venisse notata. Le due donne trovarono poi il modo di vendicarsi di Tereo. Procne gli aveva dato un figlio, Itis; la stessa Procne, con Filomela, lo fece a pezzi e lo mise a cuocere in un calderone, dandolo poi da mangiare a Tereo. Il re si accorse della macabra verità solo quando la moglie gli presentò la testa del bambino. Furente, si scagliò contro le due donne con la spada sguainata, e le avrebbe certamente uccise se Zeus non fosse intervenuto, trasformando tutti i tre personaggi coinvolti in uccelli. L’esatta identificazione è discussa, ma sembra che Tereo venisse trasformato in falco o in upupa, e le due sorelle in rondine e in usignolo».
(Anna Ferrari, Dizionario di miologia greca e latina, Torino, UTET, 2002, alla voce Tereo).
Non è necessario alcun altro commento, ma non si può non osservare che, alle violenze subite, le donne reagiscono in un modo che non fa loro onore, aggravando l’immagine di subalternità della figura femminile, visto che il potere, Zeus, riserva un’uguale, e tutto sommato permissiva, giustizia ai tre personaggi.
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Procne e Filomèla
tratto da: Amato Maria Bernabei, Mythos, poema epico drammatico, Marsilio Editori, Venezia 2006
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Menestrello
Quando dall’equinozio più si svela
il giorno e la tristezza più contrasta,
garrisce Progne e piange Filomèla. [1] 3
Non sempre l’occhio guarda come basta,
e negli affreschi traci oracolari
quello che vede, la figura guasta: 6
non i modi tradotti ed esemplari
scorge, ma, come il nesso non prevede,
intreccia almeno tre destini amari, 9
l’usignolo, la rondine e l’erede
del re dei Traci. Come nella scena
che interpreta l’errore che travede, 12
dove legge per l’estasi la pena,
e la foglia di alloro che asseconda
mutila e stride, e quel che segna aliena. [2] 15
Il verso che sorride e che feconda,
che solo l’afflizione sente mesto
quando la luce scalda e sovrabbonda, 18
vola dalla pietà, però è funesto
nel mito, che riserva al tradimento
e alla violenza l’infernale gesto. [3] 21
Meròpe
Il suono dei crepuscoli e il fermento
come poté legare il senso greco
all’abissale e al macabro tormento? 24
La rondine sui fuochi nello sbieco
grido che fa sperare nostalgie,
quasi riflesse dove spegne l’eco. 27
Come l’assenso delle melodie
dell’usignolo, liquide e fluenti,
dentro la luce e l’ombra delle vie? [4] 30
Una vecchia indovina
Intus habes… le redini furenti
e il senno scarmigliato e sanguinario
scuotono dai capelli gli occhi assenti 33
e l’assassinio che non ha sudario,
che più lo specchio del paterno aspetto
muove, che salvi il materno divario. [5] 36
Menestrello
Non salva il ventre, che curò l’affetto,
ma il seme offese e il frutto non consiglia,
che quanto più impotente, è maledetto. 39
Pandìone chiede e il debito aggroviglia
quando riconoscente Progne affida
ed uccide la prima e l’altra figlia. 42
Il quinto autunno per il cielo guida
la folle ruota che non fa rumore
logorando il sentiero che si fida. [6] 45
Procne
L’estate stinge e riduce il colore
come una giovinezza che si sveste,
forse perché rimpiange dà languore… 48
Perché il passato affiora e si riveste
come rifrange e inganna una morgana,
che se ti accosti non ha più la veste. 51
Non c’è pienezza che non sia lontana,
anche dove il presente sia contento,
il tratto falso che si mostra e frana. 54
Se strugge, ma non urta il sentimento,
fa’ che ritrovi la stagione persa,
in chi le sopravvive e non ha spento 57
e dove condivise e si riversa;
fa’ che ritrovi almeno Filomèla,
che il tempo che più cambia fa diversa. [7] 60
Menestrello
Il desiderio ha il vento ed ha la vela,
solco dall’orizzonte rinascente
al fuso che finisce e non rivela. [8] 63
Una vecchia indovina
Il filo, sempre corto, è incongruente…
l’istante ha mille rantoli ed un taglio
che pareggia l’involto differente. 66
Fende il dritto di prora ed ha l’incaglio,
come tutto che appare, ma nasconde,
ed è il panno tessuto e non lo smaglio, 69
consenso che all’intreccio corrisponde.
La morte vola come l’illusione,
illude il bene e al male lo confonde.[9] 72
Menestrello
Tocca il Pireo l’amara devozione,
uno dei cieli che l’azzurro splende
come un’insidia nella seduzione. [10] 75
Terèo
Progne rimpiange e Progne si protende,
la nostalgia che navigando perde
il profilo dell’aria che discende. 78
Nell’anima il passato non si sperde,
bello perfino quando fu infelice
se l’istante felice non disperde. 81
E ricordando, se non contraddice,
non ha più dighe e Progne lo richiama
e non ha più dolcezza che le dice. 84
Un padre vuole sempre come ama
e raccoglie così come dispose,
che per il frutto al seme si dirama. [11] 87
Menestrello
Se mai vedesti belle le mimose,
non per l’anima vaghe e per il moto
ma per moto dell’anima alle cose, 90
come incanta se sboccia e non è vuoto
Maggio negli occhi di corolla e vento,
dove il prossimo fiore è sempre ignoto? 93
Quando assale la stoppia, in un momento
il fuoco scroscia, e la passione tace,
o parla con un altro sentimento 96
ma non rivela che diventa audace,
tanto che la richiesta pare franca.
Filomèla già canta come piace 99
a quelle notti che la luna imbianca
e rarefà le stelle, e i caprifogli
suona, o desiste se la luce è stanca; 102
alle frange dei boschi e dei rigogli
dove traluce il giorno o dove sgronda,
pulsando nelle pieghe dei gorgogli. [12] 105
Terèo
Solo per poco lascerà la sponda,
e senza rischio, per la sàrtia breve
al vento che propende e non abbonda. 108
E a Progne, che l’aspetta, sarà lieve
la lontananza; a me, l’ospite, sacra:
la nobiltà che rende se riceve. [13] 111
Menestrello
La falsità che venera dissacra,
ed è più fredda quanto più abbellisce
e più insidiosa quanto più consacra. [14] 114
Una vecchia indovina
L’erba è profonda, e dove più infoltisce
l’agguato del felino ha gli occhi fermi
e trattiene lo scatto, che stormisce. 117
Odora il fieno nei respiri inermi,
distoglie le tiranniche salive
dall’attenzione oscura degli schermi. 120
Le barre salde sono alle derive
ed i gabbiani dentro l’acqua rossa
spillano i nati dalle carni vive. [15] 123
Menestrello
Filomèla blandisce, perché possa,
e la brama sarebbe già paterna,
per avere ogni abbraccio ed ogni mossa. 126
Così cieca è la notte che governa! [16]
Il presagio resiste, e poi permette
l’onda senza ritorno che costerna. [17] 129
Il Sogno
Mentre il Sonno sospende, s’intromette
l’ùpupa fulva dal becco sfilato
che il cielo all’improvviso circonflette 132
capovolgendo, come tormentato,
verso lo sfondo che diventa ondoso,
per uno sbarco d’ombre destinato. 135
Perché il volo si espande minaccioso,
snuda su due fanciulle trasparenti
un rostro che se tocca è rovinoso. 138
Quando un fulmine, prima dei fendenti,
rompe ed annienta l’angosciosa scena
per tre canti diversi e tre fuggenti 141
che nella notte piangono una pena. [18]
Menestrello
Solca la nave e solca l’orditura:
per Filomèla il cielo o l’acqua piena 144
una grétola azzurra prefigura.
E l’aquila ha ghermito e differisce,
che spacciò per affetto la congiura. [19] 147
Una vecchia indovina
Presta drappi al delitto e custodisce
la notte, e dentro l’ombra il re trascina,
fra terra e mare che non differisce. [20] 150
Orióne
Lo stupro implora la virtù divina:
la custodia celeste si addormenta
o gusta una passione concubina. [21] 153
Menestrello
Prega gridando e di sfuggire tenta,
ma più si scuote e più la voglia sforza
che prende il corpo e l’anima violenta. [22] 156
Una vecchia indovina
L’incubo sveglia un sonno senza forza
quando l’ora paterna sente un grido
al ventre penetrato che si smorza… [23] 159
Il Sogno
Dove la primavera intreccia, un nido
sembra protetto e salvo dal rapace,
fino all’unghia inattesa ed allo strido, 162
che si prolunga e non è più nidiace,
e quando desta ha voce familiare… [24]
Una vecchia indovina
La fame getta e finalmente tace. [25] 165
Menestrello
Non chi non volle e non poté pregare
e perse tutto in un oltraggio solo,
più che con sé, con chi non sa stimare 168
che non abbraccia il prepotente assolo. [26]
Meròpe
Non è l’ostio varcato che corrompe,
il taglio secco al cuore del garzuòlo 171
per la fiacca membrana che si rompe!
Solo l’anima sceglie ed è inviolata. [27]
Filomèla
Fu dolce il fiume e il vento lo dirompe 174
e la natura mite è devastata.
Saprà il bosco, e dal bosco ogni respiro,
ed ogni senso per ogni ventata. 177
Perché nessun rispetto, ma il raggiro
ad Atene mentì, mentì al filiale
affetto, come torse a giro a giro 180
la castità ed il pegno coniugale. [28]
Menestrello
Senza la punta un’arma non infigge,
e non lede l’ingiuria disuguale 183
dove l’ombra e la luce non confligge;
ma il bianco al bianco che rileva il vero
e la bieca onestà, Terèo trafigge. [29] 186
Terèo
Non avrai suono che sarà sincero,
e saprai la parola che ritratta
perché non tratta più nessun pensiero! [30] 189
Menestrello
Spera la morte, ma la spada tratta
fende la bocca che la mano afferra…
guizza l’ultima lingua ed è contratta 192
nella gola, che rantola ed aberra,
perché vibra e non sillaba nell’ancia
la voce che mortifica e rinserra. 195
Quale sorte dirà? quale bilancia
terrà la scena per l’ipocrisia
e per l’attore quando cambia guancia? 198
Piange la morte e sa la prigionia,
né si dà pena per la fondatezza
la verecondia della signoria: 201
le basta come piange la doppiezza.
Sveste i monili e indossa le gramaglie
il lutto vero, per diversa asprezza, 204
che non piange l’inganno delle draglie,
e sente il desiderio che lo spinse
come la mano che intrecciò le maglie. [31] 207
La Vendetta
Dalla scintilla atroce dove attinse,
muta, la brace, ha un solo focolare,
ma nutre le due fiamme in cui s’incinse. 210
Se tace, non finisce di guardare,
che mentre cova ha gli occhi aperti e fissi,
come la freccia che non può mancare 213
ha soltanto il bersaglio ed ha l’eclissi;
ma soffre il dolceamaro che corrode,
i sentimenti che si sono scissi. [32] 216
Menestrello
L’impotenza al potere ed alla frode
oppone l’impensabile parola
che udrà nell’orditura chi non ode. 219
Non la deprimerà la rozza spola,
che invece porta il fuoco nella traccia
ed ha la stessa rabbia della gola 222
nell’indizio che maschera e rinfaccia.
Tesse la veste rara, e poi l’affida
al cenno, che rivela benché taccia. [33] 225
L’oracolo
La mano familiare già si annida
insospettata, prossima e Fatale…
la mano scellerata e infanticida. [34] 228
Menestrello
La difesa del trono è viscerale:
interpreta, assoggetta e non è dritta,
e sconfina, nel colpo trasversale. 231
Così Terèo raddoppia la sconfitta:
teme che usurpi, ed assassina Ariante,
e avvolge la deriva, non la bitta. [35] 234
Progne spiega la veste, trepidante,
come svolgesse dall’offerta il danno,
ed il sorriso è quasi debordante 237
per la bianchezza, vergine di ranno,
dove il cinabro splende nelle scene…
ma spengono le scene dove vanno! 240
…dove la nave immerge le carene
fra l’onda e il legno, dove si confonde
il simbolo che sa soltanto Atene; 243
dove nella boscaglia si nasconde
Atena intatta e Pan che si congiunge,
e l’eroe del silenzio è sulle sponde. [36] 246
Nessun altro potere così funge
che dà l’opposto e cambia la natura,
come l’amore l’odio che raggiunge 249
- che nemmeno più sente la frattura -,
dall’intreccio del filo che denuncia
e non dà scampo al cuore che scongiura. [37] 252
Era il tempo che Bacco non rinuncia,
Bacco che lungo il Ròdope incorona
le donne di Sithònia e l’orgia annuncia 255
dove brulica il bosco, che risuona,
di fervide baccanti. Le furiali
insegne indossa Progne, che impersona 258
il rito delle smanie più carnali,
e nella notte complice dilegua
le compostezze scomode e regali. 261
Non sa se come apprese, oppure segua
l’istinto, dove maschera il sentiero
il sottobosco, e l’ombra non ha tregua, 264
il passo malsicuro è il passo vero.
Al cascinale il grido è più furioso
del sesso che divampa per il nero: 267
forza, rapisce e imperversa a ritroso. [38]
Una vecchia indovina
Ora l’ordito non è più la veste
e intesse nella notte, premuroso, 270
più ladro nel piacere delle feste,
l’ultimo dito l’ultima rovina
che tradì, sovvertendo, le richieste. [39] 273
Menestrello
La vergogna si sente più meschina
se più il furore abbraccia e più rincuora,
come se fosse mano, ed è pedina. 276
Chiedesse al male che la disonora
almeno umanità, perché contese…
ma piange, e la preghiera trascolora. [40] 279
Procne
Non fu adulterio quello che si arrese,
non fu la colpa che strappò la voce,
ma piuttosto l’accusa che protese. 282
Qualunque strazio sarà meno atroce
e non esiste ostacolo che frena,
non c’è contrasto all’impeto, che nuoce 285
come stritola il guscio la dracèna. [41]
Menestrello
Iti, che la cercava, la sorprende,
si sorprende che guardi a malapena… 288
…è dentro l’ossessione e non discende
e oscilla, come culla una follìa…
Iti l’abbraccia e appena la riprende, 291
ma poi guarda negli occhi la pazzia.
Come trascina per la selva scura
la più piccola preda, che già stria, 294
la disumana tigre; come dura
nell’anima sgomenta che si vuota
la nebbia di una morte, prematura, 297
Progne costringe e costringendo svuota: [42]
striderebbe la reggia, per orrore,
se non c’è più richiamo che la scuota… 300
La madre ha chiesto sangue fino al cuore.
Bolle nel bronzo e scotta allo schidione
le carni fresche, e imbandisce, il livore. 303
Siede Terèo, che gusta l’abiezione,
e quando sazio apprezza e si profonde,
il corso non trattiene l’avversione. 306
Chiede del figlio, e la pazzia risponde. [43]
Procne
Come lo désti, nel ventre lo porti!
Fame che nell’infame si nasconde, 309
che appena basta per sfamare i torti,
il re di Atene, Progne e Filomèla. [44]
Menestrello
Afferra il capo e sbatte gli occhi morti. 312
Urla il ventre alla carne che si svela
e rovescia la mensa, e sforza il bolo,
e già rincorre il colpo che raggela… 315
ma la pietà divina innalza il volo,
e dà le piume all’ùpupa, commossa,
alla rondine insieme e all’usignolo, 318
e una traccia di sangue che le arrossa. [45]
[1] Inevitabilmente il mito di Procne e Filomèla induce reminiscenze petrarchesche (e garrir Progne e pianger Filomena; Canzoniere, 310, v. 3; era ne la stagion che l’equinotio / fa vincitore il giorno, e Progne riede / con la sorella al suo dolce negotio; Triumphus Cupidinis, 4, vv. 130-132) non gratuite, come si vedrà nel prosieguo, nell’introdurre la “favola”. Nella stagione primaverile, quando dopo l’equinozio le giornate si allungano, e chi è triste sente acuire la propria sofferenza, per contrasto di fronte alla stagione che torna bella (come accade al Petrarca, appunto, nel sonetto citato: ma per me, lasso, tornano i più gravi / sospiri), garrisce la rondine e si lamenta l’usignolo (nei versi preferiamo Progne, più dolce di Procne), i due protagonisti del racconto.
[2] Non sempre l’occhio è sufficientemente sagace (guarda come basta), sicché a volte non decodifica in modo corretto quello che vede; come accadde a chi, trovatosi in un tempio a Daulide di fronte agli affreschi tracio-pelasgici, che volevano raffigurare i diversi metodi oracolari usati nel luogo, interpretò male i dipinti (quello che vede, la figura guasta, altera il contenuto della raffigurazione), creandone la favola di Procne e Filomèla. Infatti non vi scorge quello che era nell’intento del pittore, i metodi locali di divinazione esemplificati nei dipinti (i modi tradotti ed esemplari), ma, contro il nesso delle figure, intreccia un racconto i cui protagonisti, almeno in tre casi, quello di Filomèla, di Procne e di Iti (l’erede, figlio del re Terèo), sono destinati ad una fine amara (tre destini amari). Così viene fraintesa la scena che finisce per rappresentare l’errore che travede, dovuto al travisamento: cioè il dolore per la mutilazione della lingua inferta a Filomèla dal cognato Terèo, che l’aveva posseduta con l’inganno, perché non raccontasse i suoi misfatti, in luogo della smorfia della sacerdotessa stravolta dalla trance, che sembra perdere dalla bocca una foglia di alloro che un altro ministro le ha porto per favorire la divinazione (legge per l’estasi la pena); nella falsa interpretazione la foglia mutila quindi Filomèla, divenendo la sua lingua che cade, e sembra già stridere per il mito nel garrito della rondine in cui la sorella sarà trasformata (ma per metafora anche nel suo “pianto” di usignolo), “alienando”, alterando quello che indica davvero (naturalmente non è la foglia che mutila e stride, ma la lettura errata di chi la scambia per una lingua).
[3] I versi della rondine e dell’usignolo che “ornano” la stagione sorridente e feconda della primavera e che soltanto le tristezze e le sofferenze possono avvertire come strido e come pianto (sente mesto, come si è detto per il Petrarca) quando la luce del sole diventa più calda, e dura più dell’ombra nell’arco intero del giorno (sovrabbonda), scaturirono dalla pietà degli Dei che trasformarono Procne e Filomèla, che rischiavano di essere uccise, in rondine ed usignolo; in realtà le due figure nel mito sono tutt’altro che degne di pietà, visto che vendicarono il tradimento (Procne) e la violenza, lo stupro (Filomèla), con l’uccisione feroce (l’infernale gesto) del piccolo Iti avuto da Terèo, materialmente attuata dalla madre Procne, che poi imbandì, con le carni del figlio assassinato la mensa del marito.
[4] In che modo il senso greco (qui non solo come “modo di esperire il reale” – cfr. Il mito di Tesèo: l’emulo, v. 10 – ma anche e soprattutto come sentimento) poté associare il garrito (il suono dei crepuscoli; il crepuscolo è la luce fioca che segue il tramonto, ma anche, meno comunemente, quella che precede le aurore: qui estensivamente la parola si riferisce alla pienezza dei tramonti e delle aurore) ed il fermento incantevole dei voli ad una passione così disumana e raccapricciante, tormento degli abissi dell’anima dagli effetti così macabri? (Si evidenzia qui la non gratuità della reminiscenza iniziale). La rondine sui cieli rossi (fuochi) negli stridenti voli obliqui (nello sbieco / grido), il cui suono dà speranza perfino alle nostalgie brucianti, che accende e che porta quasi riflesse dove l’eco del grido si spegne. In che modo concepì l’assenso, la condivisione dell’infanticidio da parte delle melodie dell’usignolo che si sciolgono fluenti come fossero liquide, dentro vie di ombra e di luce? (L’usignolo canta sia di giorno che di notte).
[5] Nella narrazione di Graves, la lingua viene tagliata a Procne, ma nella versione di Ovidio, che seguiamo, è Filomèla che subisce l’amputazione, e Procne prorompe nel grido intus habes, quem poscis – chi cerchi è dentro di te -, quando Terèo, che ha appena ingerito le carni del figlio Iti, chiede di lui; questo avviene probabilmente per il fatto che quasi tutti i mitografi, tranne Igìno, hanno invertito i ruoli delle due sorelle (Robert Graves, I miti greci, Longanesi, Milano, 2002, p. 150, 46.4). Procne dunque, sfrenata, senza più redini (la furia ha perso ogni controllo) ed orrendamente stravolta (il senno scarmigliato… fuori di sé, spettinata e sanguinaria) scuote di fronte a Terèo la testa dagli occhi vuoti del figlio assassinato che, essendo stato fatto a pezzi, cucinato e mangiato, non potrà mai avere lenzuolo funebre (non ha sudario); scuote l’assassinio, che fu mosso più dalla somiglianza esteriore di Iti con il padre (lo specchio del paterno aspetto) di quanto non abbia evitato (salvi) la diversità di indole della madre (il materno divario: presunto!).
[6] Nemmeno il ventre che lo aveva nutrito con affetto difende il figlio, il ventre offeso dal seme traditore di Terèo, il cui frutto, per essere di un uomo così spregevole, non suggerisce pietà (il frutto non consiglia), tanto più sciagurato (maledetto) perché effetto dell’impossibilità di sapere, dell’impotente soggezione alla perfidia. Il re di Atene Pandìone chiede aiuto a Terèo, che regna nella Fòcide, e per debito di riconoscenza gli dà in isposa la figlia Procne, rendendo intricate le vicende del destino (il debito aggroviglia: il debito è soggetto e contiene anche la personificazione del debitore) ed inconsapevolmente condannando alla sventura (uccide) sia Procne che l’altra figlia più giovane Filomèla. La tradizione è alquanto ingarbugliata, sia sui ruoli assegnati alle due fanciulle, sia sui rapporti di parentela che esse ebbero con Terèo: per qualche mitografo infatti Procne è sorella di Pandìone, per altri figlia. Noi abbiamo seguito la tradizione cui attinse Ovidio. Erano trascorsi cinque anni dalle nozze. Il quinto autunno, infatti, guida lungo il corso del sole il carro dalla corsa frenetica e silenziosa, che però corrode il sentiero del tempo lungo il quale viaggia e che è ignaro del suo trascorrere (il sentiero che si fida è però soprattutto la vita umana, che illuminata e riscaldata dal percorso del sole, ha in esso piena fiducia, ma dalla sua corsa inesorabile viene tradita).
[7] Procne parla a Terèo. L’estate stinge i colori e riduce lo spazio di quelli che restano, come una giovinezza che sfiorisce (si sveste), e forse nel rimpianto della floridezza smarrita rende languidi per nostalgia. Perché il passato sembra affiorare e recuperare la sua forma, solo però come un miraggio, come una fatamorgana, che nell’aria rarefatta devìa (rifrange) e riflette i raggi luminosi capovolgendo i profili delle cose, ingannevolmente, visto che quando ci si accosta ogni figura svanisce (che è congiunzione con valore consecutivo: fatamorgana tale che…). Le certezze ed ogni pienezza risiedono solo nel passato (non c’è pienezza che non sia lontana), anche laddove il presente sembri appagante (sia contento), perché solo il passato è fermo nella sua sostanza, al contrario del presente che è una dimensione falsa, che sfugge (frana) mentre si mostra. Se il sentimento di nostalgia che mi strugge non ti offende (non urta) concedigli di rivivere il tempo smarrito attraverso chi sopravvive a quella stagione e quel tempo non ha spento, fa’ che esso (il sentimento), che si protende verso chi condivise quell’età, possa ritrovare almeno Filomèla, vedere quanto è mutata nel quinquennio più fertile di cambiamenti nell’arco dell’intera vita, quello che segna il passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza (che il tempo che più cambia fa diversa).
[8] Terèo asseconda i desideri della moglie e si reca ad Atene, per pregare il suocero di permettere a Filomèla di soggiornare per qualche tempo con la sorella. Il desiderio di Procne già veleggia verso Atene, sulla rotta sud-occidentale che porta in Attica (solco dall’orizzonte rinascente, da Est, sia pure di poco), rivolto inconsapevolmente verso la sventura e la fine della vita, verso il fuso delle Moire, che non rivela quando il filo si esaurisce.
[9] Non c’è coerenza nella lunghezza delle varie vite, tutte diverse, ma sempre e comunque brevi; in ogni momento mille vite si spengono, colpite contemporaneamente e livellate, qualunque durata abbiano raggiunto (l’istante ha… un taglio / che pareggia l’involto differente, la diversa lunghezza del filo avvolto intorno al fuso). L’elemento verticale che chiude lo scafo nella parte anteriore della nave (il dritto di prora) fende l’acqua velocemente, e non lascia sospettare la possibilità che si incagli (ha l’incaglio: metaforicamente si allude al destino funesto del viaggio), come ogni cosa che in apparenza è diversa dalla sostanza che cela, non per accidentale errore, ma per preciso disegno (ed è il panno tessuto, non lo smaglio, il tessuto così come è stato concepito, non una fortuita smagliatura; smaglio è licenza di rima), come in questo caso la gentilezza consenziente di Terèo che asseconda (corrisponde) la trama tessuta dal Fato. La preveggenza è oscura, ma allude alla morte di Procne e Filomèla che avverrà per metamorfosi, volerà nella rondine e nell’usignolo: la morte vola come l’illusione, la morte vola come i sogni, ma se “illude”, è perché inganna il bene, che fa sembrare tale essendo invece male, quando sembra pietà divina ed è due volte malvagità, perché “predisposta” dagli dei e perché data in premio per un infanticidio (illude il bene e al male lo confonde).
[10] La gentilezza infausta (l’amara devozione) di Terèo approda nel porto di Atene, in uno di quei giorni (cieli) splendidi dell’autunno, che nascondono il morire della stagione in una luce smagliante, come un’insidia che si nasconde in una seduzione.
[11] Terèo parla a Pandìone. Tua figlia Procne rimpiange il passato e verso il passato si protende: la sua è la nostalgia di chi si allontana dalla terra natìa (navigando perde) e vede quasi discendere nell’acqua e scomparire il familiare profilo di cielo che lascia. (Terèo ancora non esprime la sua indole perversa, al raggiungimento dei cui intenti giova la componente di sensibilità e di gentilezza che la arricchisce). Nell’anima il passato viene mitizzato, e non viene mai dissipato (non si sperde; il “si” è passivante: non si disperde, non viene distrutto), ed è bello perfino quando fu infelice (Leopardi: per quanto triste e che l’affanno duri), dal momento che sa conservare anche un unico istante di felicità e solo quello rivive (c’è nell’uomo la tendenza ad edulcorare il passato). Se poi quello che ricorda coincide in tutto con quello che fu (se non contraddice), allora non c’è argine che trattenga il desiderio che il passato ha di rivivere, come accade a Procne, che ardentemente lo rivuole (lo richiama) e non conosce nessun’altra cosa che le parli e la accarezzi con altrettanta dolcezza. Terèo è abile nel discorso: un padre agisce sempre (vuole) nel modo in cui ama, dimostra l’amore con quello che fa e tutto quello che raccoglie nei figli dipende da quello che seminò (come dispose, in rapporto a come agì) e che dai frutti, attraverso nuovi semi, sarà trasmesso alla discendenza (si dirama).
[12] Mentre Terèo parla, entra Filomèla. Se la tua sensibilità ti ha mai permesso di apprezzare la bellezza incantevole delle mimose (la seconda persona ha valore impersonale), incantevoli (vaghe) non per i moti di un’anima che non possono avere, ma per lo slancio dell’anima verso le cose belle, pensa quanto più delizioso possa essere Maggio, il mese pieno della primavera, che sboccia negli occhi e non è vuoto, ha un’anima (Maggio negli occhi di corolla e vento, occhi che sono insieme fiori e vento che li muove; ma il vento è qui spazio, cielo, e soprattutto anima) e dove ogni boccio che si apre successivamente è sempre una sorpresa (ignoto). Quam si quis canis ignem subponat aristis (Ovidio, Metamorfosi, VI, 456): il fuoco rapidamente avvampa e crepita (scroscia) quando assale le stoppie, la passione che investe l’animo di Terèo però non fa rumore, tace; o meglio, Terèo continua a parlare, ma ora con un sentimento diverso, che tuttavia riesce a mascherarsi nelle argomentazioni (ma non rivela che diventa audace; Terèo non pèrora più la causa di Procne, ma la propria, preso com’è dal desiderio di possedere Filomèla, tuttavia lo fa con abilità, dissimulando le intenzioni), al punto che la sua richiesta sembra leale. Filomèla è incantevole già come sarà il suo canto che piace particolarmente a quelle notti che la luna rischiara (imbianca) rarefacendo la luce delle stelle e sembra lei suonare i sambuchi (i caprifogli: il sambuco è una pianta delle caprifogliacee), da cui si effonde il verso degli usignoli, o sospendere la musica quando, stanca, ritira la luce. E canta, Filomèla, come piace anche ai ricami fitti e rigogliosi dei boschi, dove i raggi tralucono dalle foglie o sgrondano negli spazi aperti fra i rami, pulsando nelle increspature dei gorgheggi, quasi ricalcandoli (la parola gorgòglio è qui in luogo di gorgheggio).
[13] Solo per poco Filomèla si tratterrà presso la sorella e non correrà alcun rischio, perché il viaggio sarà breve, ora che il vento propende, gonfia favorevolmente le vele e non abbonda, non è eccessivo (la sàrtia breve per metonimia è la nave rapida che renderà breve il viaggio). Così a Procne, che aspetta la sorella, sarà più accettabile la lontananza; quanto a me, l’ospite sarà sacra: è l’imperativo della nobiltà, che non può non rendere un favore quando lo riceve.
[14] Quando il rispetto è falso, è l’antitesi del sacro (dissacra) e più cerca di vestirsi di belle forme, più risulta insincero e freddo, e tanto più pericoloso, quanto più si appella a principi solenni (consacra; si allude naturalmente al secondo intervento di Terèo, che con molta evidenza ha perso lo slancio e la sincerità che le parole avevano prima che entrasse Filomèla, divenendo untuoso, convenzionale e freddo, perché animato solo da secondi fini).
[15] L’erba è alta e dove è più fitta il felino è immobile nel suo agguato, con gli occhi fissi sulla preda, ed aspetta il momento opportuno per piombarle addosso; ma il suo intento per ora si mimetizza nello stormire del vento che arriva dagli steli (lo scatto fatale è per ora nell’intenzione, e si nasconde, stormisce con il vento). Nelle narici indifese (respiri inermi) della vittima il fieno profuma, e distrae il gusto, il desiderio insopprimibile di assaporarlo (distoglie le tiranniche salive), dall’oscura minaccia, dall’attenzione che il felino riserva rimanendo ben nascosto (gli schermi, per metonimia, sono protési all’assalto). La barra del timone è salda, eppure è alla deriva (la nave di Terèo per Filomèla sarà sciagurata, ed il viaggio, seppure favorevole, la porterà alla rovina) e nell’acqua del mare, arrossata, i gabbiani sembrano spillare ferocemente il sangue dalle carni vive dei piccoli nati (l’allusione divinatoria è rivolta all’infanticidio che Procne e Filomèla porranno in atto.
[16] Filomèla cerca di convincere suo padre (perché possa), che si mostra riluttante, quasi presagisse, con ogni genere di moine (blanda tenens umeros, ut eat visura sororem: Ovidio, Metamorfosi, VI, 476) e l’incontenibile libidine di Terèo sarebbe disposta a diventare paterna (Terèo vorrebbe quasi essere il padre della fanciulla) per potere avere da lei ogni abbraccio ed ogni carezza. Tanto è cieca la notte che assoggetta l’animo umano (pro superi, quantum mortalia pectora cecae / noctis habent! – Ovidio, Metamorfosi, VI, vv. 472-473).
[17] Pandìone, come si è detto quasi presago, alla fine cede e lascia che Filomèla intraprenda il viaggio che non avrà ritorno e lo addolorerà mortalmente (costerna).
[18] Mentre il Sonno – qui divinizzato -, sospende la coscienza e la volontà, s’intromette il sogno di un’ùpupa, uccello dal pelo fulvo e striato e dal becco sottile (uccello che nel sogno rappresenta Terèo, che sarà in tale foggia trasformato da Zeus) che all’improvviso curva il volo (il cielo) invertendolo e tornando indietro (circonflette), come assalito da un fastidio (come tormentato), verso lo sfondo della scena, che si trasforma in distesa marina (diventa ondoso) e permette lo sbarco destinato, quasi predisposto, di ombre umane. Non può essere casuale l’approdo, per la scena che lo segue, dato che subito il volo dell’ùpupa si espande, l’uccello diventa gigantesco e minaccioso, e punta (snuda) contro due ombre, due profili indistinti di fanciulle (due fanciulle trasparenti; nel verbo “snudare” c’è la premonizione: la spada che Terèo rivolgerà contro Procne e Filomèla prima della metamorfosi), non il becco, ma addirittura un rostro micidiale, che se tocca è rovinoso. Ad un tratto un fulmine (premonizione dell’intervento di Zeus) si abbatte, prima dei colpi del rostro portati dall’alto (fendenti: ancora l’allusione alla spada) ed incenerisce la scena angosciante, dalla quale si alzano in volo tre differenti uccelli dal canto diverso, e tutti e tre in fuga (per tre canti… in cambio di tre, a favore di tre) che nella notte di Filomèla sembrano piangere per una dolorosa sofferenza.
[19] Con la nave che riprende il mare viaggia anche la macchinazione di Terèo (l’orditura). Per Filomèla il cielo o il mare aperto (l’acqua piena, perché riempie lo scenario) mentre sembrano sorriderle, sono soltanto una stecca per la gabbia (grétola) che preannunciano (nell’aggettivo azzurra c’è il sorriso apparente che contrasta quasi in ossimoro con la stecca per l’intelaiatura della gabbia). E Terèo ha ghermito la preda con i suoi artigli, ma rinvia il piacere (differisce) al momento più opportuno, pregustandolo, dopo aver spacciato per affetto la sua trama segreta.
[20] La notte copre i delitti (presta drappi al delitto) e sorveglia che si compiano (custodisce), e così il re (Terèo) trascina la sua vittima dentro l’ombra quando terra e mare, nel buio, si confondono (non differisce; nel momento in cui fra il mare e la terra non appaiono differenze; ma, con doppio senso, il buio della terra e del mare non permette di rinviare, “differire” la violenza, come fosse complice).
[21] La consueta amarezza ironica di Orióne. La violenza che Filomèla sta subendo supplica gli Dei, chiede aiuto al loro potere (implora la virtù divina; Orióne non racconta, ma presuppone), evidentemente, però, la vigilanza celeste si è addormentata o sta gustando i piaceri di amori illeciti (concubina è aggettivato).
[22] In realtà, racconta il Menestrello, Filomèla urla e prega e si dimena nel tentativo di sottrarsi, ma più si sforza e più costringe la voglia di Terèo, che si impadronisce del corpo della vittima, ma fa violenza soprattutto alla sua anima.
[23] Ad Atene il padre di Filomèla dorme, ma il suo sonno è leggero (senza forza) ed agitato, e si interrompe all’improvviso, allorché, nel momento della violenza, egli sente urlare (l’ora paterna sente un grido, la medesima ora, vissuta dal padre, sente gridare nel sonno), come udisse il grido della figlia il cui ventre, posseduto, perde ogni sensibilità, refrattario (si smorza).
[24] Pandìone sogna che è primavera e vede un nido che sembra ben riparato, al sicuro dagli attacchi dei rapaci… fino a quando non piomba un artiglio inatteso e si sente stridere la nidiata, strido che si prolunga e diventa umano (non è più nidiace, di uccellini indifesi, incapaci di volare), e nel momento in cui provoca il risveglio sembra addirittura familiare.
[25] La fame libidinosa è al culmine, eiacula (getta), e finalmente tace.
[26] Non tace però chi cercò di sottrarsi alla sopraffazione e non fu ascoltata nelle preghiere (non poté indica la preghiera impotente, la non efficacia della preghiera, non l’impossibilità di pregare), ed in una sola offesa perse tutto, più che nei confronti di se stessa, nella valutazione di chi (Terèo e chiunque come lui) non è in grado di capire (non sa stimare) che l’assolo violento dello stupro non abbraccia, non ama e non è amato, e dunque non tradisce la fede.
[27] Meròpe aggiunge il suo sostegno a Filomèla: non è l’orifizio violato (l’ostio varcato) che strappa la verginità, il taglio bruscamente penetrato fino al cuore del grùmolo (il garzuòlo, o anche grùmolo, è la parte più tenera ed interna di un cespo di verdura) per la fragile opposizione e per la rottura dell’imène (fiacca membrana). Solo l’anima può essere considerata vergine, che può scegliere di esserlo indipendentemente dal sopruso (la verginità è nell’anima).
[28] Il fiume era calmo e la tempesta lo fece straripare (il verbo dirompere è reso transitivo: lo rende dirompente, lo fa straripare), e l’indole che era mite è stata devastata dalla violenza, diventando feroce. Per quanto tu mi voglia tenere prigioniera nel bosco, griderò al bosco il delitto, e dal bosco lo saprà ogni respiro dell’aria, ed attraverso ogni soffio di vento, ogni udito (ogni senso). Griderò perché non fu certo il rispetto, ma l’imbroglio a mentire a Pandìone (ad Atene) ed a tuo figlio Iti, nello stesso modo in cui avviluppando (come torse) una spirale dopo l’altra, poté tradire la mia verginità e la fede coniugale.
[29] Un’arma senza la punta non infilza, così un’ingiuria ingiustificata, non adeguata all’oggetto offeso (disuguale), non offende nella dimensione psichica, dove non c’è conflitto quando c’è un contrasto simile (dove l’ombra e la luce non confligge; bianco e nero non contrastano con ostilità nella mente: chi non claudica non può offendersi se lo chiamano zoppo; confligge è latinismo, da confligěre). Ma il sentire accostare il bianco al bianco, il sentir dire quello che è vero, e l’avvertire smascherato il “pudore” che mira solo a “salvare la faccia” (e la bieca onestà, il volere apparire onesto, l’onestà apparente e quindi falsa) trafiggono Terèo.
[30] Non pronuncerai più nessuna verità (suono che sarà sincero) e scoprirai come sa ritrattare la parola quando non è più in grado di esprimere alcun pensiero.
[31] Filomèla spera che la minaccia sia mortale, ma la spada che Terèo sfodera taglia la lingua che egli ha afferrato e stringe con l’altra mano. La radice dell’organo (l’ultima lingua) guizza contratta nella gola rantolante (…radix micat ultima linguae, Ovidio, Metamorfosi, VI, 357), che produce solo gutturalità aberranti (aberra), perché vibra, ma non può più scandire i suoni nell’ancia, nella lingua, articolare la voce, che delude i tentativi e rinchiude il segreto della scelleratezza (mortifica e rinserra). Che cosa inventerà Terèo? Che sorte dirà, toccata a Filomèla? Quale equilibrio (bilancia) riuscirà a velare, sulla scena, la recitazione dell’ipocrisia? E quale avveduto espediente avrà il trucco (cambia guancia) dell’attore? Terèo racconta che Filomèla è morta, mentre sa che la tiene segregata, e non si preoccupa minimamente della fondatezza delle sue affermazioni, visto che non potrebbe appoggiarsi alla testimonianza di chi era con lui: si comporta come di solito la spudorata tirannia (la verecondia della signoria; “verecondia” è soggetto di tutto il periodo, e personifica sarcasticamente Terèo), ma il pianto finto (come piange la doppiezza) gli basta per convincere Procne. Il cordoglio sincero di Procne smette l’abbigliamento ricco di ori ed indossa gli indumenti da lutto (le gramaglie), espresso per una sventura (asprezza) diversa da quella reale (lutto vero), che non piange l’inganno nato dal viaggio di Terèo (draglie, cavi di appoggio delle vele, metonimicamente sta per imbarcazione a vela e quindi per viaggio), ed avverte un profondo senso di colpa, attribuendo al desiderio che lo spinse (il lutto è soggetto e personifica Procne) a voler rivedere la sorella la causa della sciagura (intrecciò le maglie, preparò la rete in cui la sorella è caduta, rete del destino, per Procne).
[32] La Vendetta sembra una voce narrante: in realtà parla in terza persona di se stessa. Dalla scintilla feroce alla quale attinse il fuoco (il fuoco della vendetta fu acceso dalla violenza carnale e dalla mutilazione), ora la brace cova in un solo focolare, nell’animo di Filomèla, si nutre silenziosa, sia metaforicamente che realmente, ma prelude allo scoppio di due incendi (cova le due fiamme), perché fu fecondata (s’incinse) dal torto sia per la rivalsa di Filomèla che di Procne. La brace, la vendetta, cova in silenzio, ma non distoglie nemmeno per un attimo lo sguardo dalla vittima, tanto che mentre coltiva l’odio e la rivalsa, tiene gli occhi spalancati ed immobili, come la freccia che punta sul bersaglio e per la quale tutto il resto è vuoto, buio (eclissi); la vendetta, tuttavia, rode con gusto dolceamaro (il gruppo “cea” forma sillaba unica per sinèresi), avverte come una frattura dentro, dovuta a sentimenti contrastanti (scissi: la dolcezza di ripagare con moneta uguale e l’amarezza del doverlo fare).
[33] L’impotenza in cui versa Filomèla escogita un espediente capace di combattere contro il potere e la frode: la parola a cui Terèo non può pensare, il messaggio attraverso il ricamo, che, inudibile, potrà essere udito (chi non ode potrà udire); Filomèla non può parlare, ma trova il modo di farlo in altra maniera: all’orditura metaforica – v. 143 – la vendetta contrappone un’orditura reale). Non si lascerà deprimere dal fatto di poter disporre solo di un rudimentale telaio (rozza spola), che anzi, per quanto primitivo, imprimerà il codice di comunicazione a caratteri di fuoco nella traccia, nel ricamo (purpureasque notas filis intexuit albis: Ovidio, Metamorfosi, VI, 577), gridando con la stessa forza e con la stessa rabbia che avrebbe la voce (gola) della tessitrice nell’accusa provata (indizio; indicium sceleris, Ovidio, Metamorfosi, VI, 578) che Filomèla esprime in modo velato e chiaro nello stesso tempo (maschera e rinfaccia), in modo che soltanto la sorella Procne possa capire. Tesse la veste rara, preziosa nell’ordito, ma soprattutto insolita per il compito che le è assegnato e poi prega una donna che la recapiti alla regina, e dal momento che non può usare la voce, si fa capire con i gesti che sanno rivelare senza parlare.
[34] Già una mano familiare è in agguato (si annida), una mano insospettabile, imminente e voluta dal Fato, la mano che compirà la scelleratezza di uccidere il piccolo Iti (infanticida). Un oracolo aveva annunciato a Terèo che suo figlio sarebbe morto per mano di un congiunto.
[35] La difesa del potere regale è istintiva e profonda (viscerale) e Terèo, più che decifrare davvero il vaticinio, lo sottomette alle proprie paure, assoggetta e non è dritta, non colpisce con precisione “verticale”, ma con approssimazione obliqua, che investe anche l’estraneità (sconfina, nel colpo trasversale). I versi presentano lo specifico in forma generalizzata, intendono affermare che chi gestisce il potere è più attento a mantenerlo con ogni mezzo che a salvaguardare i criteri del buon governo, vagliando di volta in volta e con attenzione le circostanze, ed intervenendo in modo equilibrato e saggio. Per questo Terèo incontra una doppia sconfitta: quella per la quale uccide inutilmente il fratello Ariante, perché teme che possa essere lui a voler uccidere Iti per impadronirsi poi del trono, e quella che deriva dalla prima, per la quale avvolge paradossalmente il cavo alla deriva anziché alla bitta.
[36] Procne srotola la veste, in preda ad una strana ansia, come se dal dono che le è stato recapitato dovesse derivarle una sventura; ma quando vede il purissimo bianco non ancora sbiadito dalle lavature (vergine di ranno; il ranno è un miscuglio di cenere e di acqua bollente che in passato veniva usato per lavare i panni), sul quale splende il rosso vivo delle scene ricamate a mano (il cinabro, solfuro di mercurio, ha colore rosso vivo), si rassicura e sboccia in un sorriso aperto (quasi debordante)… Per poco, perché le scene rappresentate, a causa dello scopo che rivelano, della meta dove si dirigono (dove vanno), spengono subito quella letizia. E le scene vanno dove un segnale, un indizio che solo la sorella ateniese può conoscere, si mimetizza (si confonde) sulla linea d’acqua nella quale una nave (che allude al viaggio dall’Attica alla Tracia) immerge la carena, nelle increspature delle onde. (Abbiamo voluto immaginare che Filomèla non abbia ricamato le scene della sua disavventura, troppo pericolose qualora fossero state accidentalmente viste da Terèo, ma che abbia usato dei codici che solo Procne avrebbe potuto decriptare); [le scene vanno] dove in una boscaglia spicca l’improbabile accoppiamento della vergine Atena con il Dio Pan, così strana rappresentazione da poter alludere solo allo stupro; meno chiara, ma intuitivamente anch’essa allusiva, la figura di Orfeo, l’eroe del silenzio (Anna Ferrari, Dizionario di mitologia greca e latina, UTET, 2002, p. 644, alla voce silenzio), che siede immobile ai bordi (sulle sponde) della boscaglia medesima. La composizione dei ricami è frutto della nostra immaginazione. Attraverso questi segni Procne comprende che la sorella è viva, che è stata violentata ed è tenuta prigioniera, ed è in qualche modo costretta al silenzio.
[37] Nessun accelerante può modificare così prontamente una natura rendendola opposta (dà l’opposto e cambia la natura: l’ordine è inverso, cambia e dà l’opposto), come l’odio che sostituisce (raggiunge) l’amore, colpendolo, cancellandolo, ed almeno equivalendosi ad esso per intensità; “l’accelerante” è naturalmente quello che il ricamo rivela e che genera l’odio, con tale rapidità da non avvertire nemmeno la transizione (la frattura, la diversità fra i due sentimenti ed il momento del passaggio), a causa della rivelazione del ricamo che accusa (denuncia; “dall’intreccio” indica appunto la provenienza, la ragione della metamorfosi sentimentale) e non dà al sentimento nessuna via di uscita, nessun modo di sperare che non sia vero quello che appare, non dà al cuore la possibilità di allontanare il sospetto.
[38] Continuiamo a seguire la versione ovidiana: tempus erat, quo sacra solent trieterica Bacchi. Era il tempo in cui Bacco, ogni tre anni, sfrena l’orgia (non rinuncia) nei boschi di Sithonìa (E42T<“, nell’antica Tracia, una delle penisolette della Calcìdica) lungo il fiume Ròdope, ed incorona di tralci le donne pronte al rito, e dai bronzi che tintinnano (nocte sonat Rodhope tinnitibus aeris acutis, Ovidio, Metamorfosi, VI, 589) annuncia l’orgia nel fitto delle piante, dove pullulano le baccanti infervorate. Procne si traveste, indossando l’abbigliamento delle furiose baccanti, le furiali / insegne ed interpretando il ruolo di una mènade, il rito in cui si può dare sfogo agli istinti più bassi (furialiaque accipit arma, Ovidio, Metamorfosi, VI, 591) ed in tal modo, con la complicità dell’ombra, riesce a nascondere (dilegua) la scomoda dignità regale. Che ricordi con precisione le indicazioni ricevute, oppure si lasci guidare dall’istinto, il passo incerto, che ha dubbi sul tragitto, perché il terreno è uniforme, non ha sentieri, coperto com’è interamente da erbe, foglie ed arbusti (maschera il sentiero / il sottobosco) e l’ombra è sempre fitta (non ha tregua), alla fine si rivela quello giusto (il passo vero). Quando finalmente Procne giunge alla porta del cascinale dove Filomèla è tenuta prigioniera, il suo grido è più furioso delle orge che imperversano dentro il buio della notte (per il nero): forza l’ingresso, rapisce Filomèla e ritorna indietro con furente veemenza (imperversa a ritroso).
[39] Adesso l’intreccio non è più nelle mani di Filomèla, non è più la veste che lei ricamò (l’ordito non è più la veste): un altro tessitore, il Fato, si affanna per portare a termine il suo lavoro, premurosamente nella notte, più perfido e più ladro (dei destini, della vita, della felicità), perché opera in contrasto con la ricorrenza dionisiaca che impazza, si accinge a “ricamare” con l’ultimo gesto, l’ultima trama rovinosa (l’ultimo dito è soggetto e personifica il Fato tessitore), esso che già in precedenza aveva tradito i desideri e le richieste di Procne, capovolgendoli addirittura.
[40] Al palazzo Filomèla non ha nemmeno il coraggio di guardare la sorella e si sente tanto più in colpa (meschina) quanto più Procne, infuriata contro Terèo, l’abbraccia e cerca di consolarla, come se avesse lei preso l’iniziativa invece che subirla senza poter reagire, come se fosse la mano che muove e non la pedina mossa. Se almeno avesse voce per chiedere pietà (umanità) per la colpa alla quale si oppose con tutte le sue forze (perché contese) e che la disonora… Invece non può fare altro che chiedere perdono piangendo, e la preghiera le impallidisce il volto (trascolora: la preghiera, personificata, impallidisce).
[41] Se ti è stata strappata la voce non fu certo perché acconsentisti al rapporto adulterino, non fu certo per la colpa, ma piuttosto per le minacce che la tua voce lanciò contro lo stupratore (l’accusa che protese). Qualunque supplizio io scelga per vendicarmi, sarà meno atroce di quello che lui ci ha inflitto, ma sono disposta a tutto, non c’è ostacolo che possa governare la briglia e darmi un freno e non c’è forza che possa contrastare il mio furore che è in grado di nuocere, come la dracèna aggredisce e stritola i gusci delle chiocciole (la dracèna è un rettile dei Tèidi, dalla forte dentatura, che si nutre di chiocciole, delle quali stritola il guscio).
[42] Entra Iti, che cercava la madre, e scosso dai rumori e dalla voce concitata finalmente la trova con Filomèla… è sorpreso che la mamma lo guardi a malapena. Procne è ormai dentro la sua ossessione e non riesce ad uscirne (non discende), oscilla con il corpo come chi si culla in una qualche follia (nel modo in cui una follia fa dondolare). Iti corre verso di lei e l’abbraccia e per un attimo la recupera, la intenerisce (la riprende), ma poi scorge con terrore lo sguardo impazzito della madre. …veluti Gangetica cervae / lactentem fetum per silvas tigris opacas (Ovidio, Metamorfosi, VI, 636-637): come una tigre feroce (l’aggettivo disumana è più riferito a Procne che alla belva, che evidentemente non può essere tale, ed è semmai sanguinaria, parola di cui la donna in questo caso diventa sinonimo) trascina dentro l’ombra profonda del bosco una preda appena nata, che fra i suoi denti già lascia tracce di sangue sul terreno (stria); come lo spavento, il terrore crea nell’anima un vuoto che paralizza e perdura, quasi fosse annebbiata prematuramente dal sopraggiungere della morte (prematura si riferisce a nebbia; la seconda similitudine riguarda Iti), nello stesso modo Procne trascina con forza il piccolo figlio e trascinandolo lo svuota per il panico.
[43] Non c’è più voce, non c’è più richiamo che possa fermare Procne: Iti la chiama… e, se potessero, le pareti striderebbero per l’orrore. La spada di Procne ha trafitto il figlio fino al cuore (la madre ha chiesto sangue fino al cuore; il senso è però doppio, e si riferisce anche all’affetto materno che nella follia ha ferito se stesso “fino al cuore”). Il rancore non è ancora appagato, e bolle in pentole di bronzo ed arrostisce allo spiedo le carni fresche del piccolo Iti (scotta allo schidione; lo schidione è un lungo spiedo), ed apparecchia la tavola per il pasto orrendo di cui Terèo si ciberà (e imbandisce, il livore; il livore è soggetto). Terèo siede a tavola e gusta l’infamia, la scellerata mensa (siede Terèo, che gusta l’abiezione) e quando sazio fa eccessivi complimenti alla moglie per la bontà dei cibi (apprezza e si profonde) ormai il corso degli eventi non riesce più a trattenere l’avversione di Procne nel suo esito finale. Terèo chiede del figlioletto Iti e Procne, in preda alla follia, gli risponde.
[44] Come tu me lo désti dentro, così adesso lo porti dentro. Tuo figlio è ora la fame (il pasto ingerito) che si nasconde nel ventre dell’infamia, ed è appena sufficiente per togliere la fame di vendetta al re di Atene ed alle sue figlie per i torti subiti (l’insistenza per significato o per suono, fame, infame, sfama, rimarca il delitto).
[45] Mentre urla, Procne afferra per i capelli la testa di Iti e scuote i suoi occhi morti davanti al padre esterrefatto (cfr. v. 33; nella voce sbatte c’è anche, per contrasto tragico, il muoversi delle palpebre vive). Nell’apprendere che carne ha gustato, Terèo si ribella ed urla, rovescia la tavola apparecchiata ed è assalito da conati di vomito (sforza il bolo) e rincorre le due sorelle (Filomèla è evidentemente entrata al culmine della tragedia) per ucciderle (e già rincorre il colpo che raggela, che dà il gelo della morte; il colpo è complemento oggetto). Ma la pietà di Zeus interviene, commossa, e trasforma i protagonisti della tragedia in uccelli: Terèo in ùpupa, Procne in rondine, Filomèla in usignolo; sulle piume di tutti e tre, sfumature di rosso ricordano il sangue del misfatto.
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