VADEMECUM PER GIOVANI
di Mauro Scacchi
L’ITALIANO è la nostra lingua. Nasce per filiazione diretta dal latino. L’italiano ha, nel sangue, la grandezza dell’antica Roma e del suo Impero. Termini latini sono presenti nell’attuale giurisprudenza di mezzo mondo. Dopo il boom colonialista dei secoli scorsi, lingue «nipoti» del latino come il francese e lo spagnolo sono oggi più parlate dell’italiano. Nel cosiddetto Occidente (Americhe comprese), a farla da padrone sono inoltre le lingue di matrice germanica e anglosassone, il tedesco e l’inglese. E l’italiano, prediletto figlio di Dante, erede legittimo tanto di Giulio Cesare quanto di Cicerone? Ebbene, è stato messo all’angolo e noi non possiamo più tollerarlo.
Fondamento di qualsiasi battaglia che abbia lo scopo di riportare la nostra amata lingua ai fasti che le spettano, alla posizione internazionale che le è dovuta per natura, è il seguente concetto espresso da Anna Maria Campogrande: «La lingua madre struttura il pensiero, conferisce una forma mentis, un’identità ben precisa, delle qualità intellettuali e delle disposizioni, artistiche, tecniche, scientifiche, musicali, filosofiche, spirituali che spiegano, ad esempio, perché l’Italia è quel Paese benedetto da Dio che ha avuto artisti geniali e luminari in tutte queste aree della scienza e della cultura». La Campogrande, Presidente di «Athena», «associazione per la difesa e la promozione delle lingue ufficiali della Community Europea», ha stilato assieme all’associazione culturale italiana «Allarme Lingua» di Trieste un Manifesto per la difesa e la promozione della lingua italiana, che vuole ribadire a tutti il concetto che l’italiano non è soltanto uno «strumento di comunicazione per eccellenza, ma è molto più di questo».
In esso si stigmatizzano l’imbarbarimento del vocabolario corrente, la sostituzione in alcuni corsi di laurea dell’italiano con l’inglese, il pericolo che corre il patrimonio culturale nostrano a fronte della prevaricazione di quello anglosassone, la poco o nulla efficacia degli interventi delle autorità italiane in difesa della lingua nazionale. Il Manifesto, presentato in varie città d’Italia a partire da Torino, dovrà coinvolgere sempre più le scuole. Il Manifesto non si limita a prendere atto di certe situazioni ma propone soluzioni concrete, tra cui: l’istituzione di un organo di tutela della lingua italiana presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri (ottima idea, ma forse si dovrà attendere, per averlo, un Presidente del Consiglio meno europeista -americanista … ), una maggior diffusione dell’italiano anche in aree geografiche estere dove forte è la presenza di nostri concittadini e la dissuasione a usare termini non italiani, perlomeno presso organi e imprese che sono la faccia dell’Italia nel mondo, per esse prevedendo benefici economico-fiscali qualora accettassero l’onore di farsi veicolo della nostra lingua e della nostra cultura.
L’allarme deve suonare forte e deve suonare adesso. E deve essere ascoltato. Nell’insipienza generale, la comunità internazionale, in cui ognuno vuole primeggiare sull’altro, sta chiudendo la lingua italiana in cantina e già sta cercando di capire come buttar via la chiave senza destare sospetti o suscitare indignazione, forte dello stordimento che, ahimè, sembra aver avviluppato il nostro popolo. Questo non possiamo permetterlo. Se non saranno gli italiani stessi a impedire tale scempio, nessun altro, credetemi, lo farà.
Giovani italiani, tirate fuori orgoglio e amor patrio, non limitatevi a un silenzio dignitoso carico di tristi e rassegnati pensieri ma levate alte le vostre grida e pretendete ciò che è giusto: siete italiani, allora parlate italiano e parlatelo bene, ma soprattutto esigete dai vostri interlocutori stranieri di parlarlo a loro volta! Basta con il turista francese che arriva a casa vostra senza neppure aver imparato le poche sciocche frasi che di solito occorrono per orientarsi durante una vacanza! E così, basta anche con l’inglese, il tedesco e lo spagnolo che giungono presso la vostra soglia e non son nemmeno capaci di dire «dove ferma l’autobus?», «dove posso trovare un buon ristorante?», che si sforzino d’imparare, in Italia, un po’ d’italiano!
Vi rendete conto che ci stiamo immettendo su una strada costruita sulle rovine della nostra cultura, che pure non ha eguali nel mondo? Che se continuerà in cotal guisa, sulla Via Appia saremo presto o tardi costretti a dialogare in Cockney, anche tra di noi?
Vi spiego perché non c’è più molto tempo, perché se amate l’Italia e voi stessi dovrete da oggi in avanti promuovere l’italiano nel mondo. E, sia chiaro, se oggi necessitate d’imparare altre lingue, magari per lavorare, è perché il Belpaese s’è reso debole agli occhi altrui. Questa è la cruda verità e tocca rimboccarsi le maniche, in fretta. Se sarete forti, l’Italia sarà forte, e un domani saranno gli altri a dover imparare la lingua del Sommo Poeta!
Il 13 aprile scorso il Corriere della Sera pubblicava l’articolo Se le nostre università si convertono all’inglese, di Alessandra Mangiarotti. Un titolo un programma, vien subito da pensare. Il pensiero si rivela giusto non appena si legge il testo: dal 2014 al Politecnico di Milano «i corsi degli studenti dell’ultimo biennio della laurea specialistica e dei dottorati saranno tenuti esclusivamente in inglese». Sogno o son desto? Ma siamo in Italia? Il rettore Giovanni Azzone s’impegna come pochi a sostenere l’iniziativa: «L’Italia può crescere solo se attrae intelligenze» (peccato che le nostre fuggano tutte all’estero … ), «L’inglese obbligatorio è un vantaggio per l’Italia» e via di questo passo. Presso il Politecnico milanese quasi il 20 per cento degli studenti sono stranieri. Sarebbe buona cosa inculcargli l’italiano, invece no. È il solito mantra, lo stesso che vuole convincerci ad accogliere tradizioni straniere a casa nostra, quando nel mondo, mi scuserete il gergo volgare, col cavolo che si fanno scrupoli nell’impedire alla nostra lingua ed alla nostra tradizione di emergere. La notizia del Politecnico di Milano si ritrovava anche sul Secolo d’Italia, sempre il 13 aprile, nell’articolo Bye bye italiano al Politecnico di Milano di Valerio Pugi. La lingua italiana sembra essere un tallone d’Achille per i nostri stessi connazionali posti al timone del Paese Italia. Occorre adesso citare la cosiddetta «cooperazione rafforzata» prevista dal Trattato di Lisbona. Si tratta della possibilità di depotenziare il diritto di veto dei Paesi membri della Ue, purché almeno dieci siano d’accordo. Questo protocollo è particolarmente chiamato in causa per giustificare il Trilinguismo. Cos’è il Trilinguismo? È l’utilizzo smodato di sole tre lingue: inglese, francese e tedesco. Il Trilinguismo è già una mezza realtà. Quando le autorità europee salgono sul palco hanno dietro di sé quasi sempre cartelloni con parole scritte soltanto nelle tre lingue suddette. E tanti saluti per le altre realtà nazionali, la nostra compresa. Si pensi all’infinita discussione sull’adozione di un brevetto unico europeo, che dovrebbe rilanciare i settori della ricerca e della tecnologia a livello comunitario. Le invenzioni, a livello europeo, si vorrebbero presentate soltanto in inglese, francese e tedesco. L’Italia e la Spagna, in primis, si sono fortemente opposte. La discussione va avanti da anni e dal 2005 ha avuto una recrudescenza che ancora non è finita. La risposta italiana a conti fatti non è stata poi così brillante: alcuni hanno acconsentito all’idea del Trilinguismo per evitare il rischio della lingua inglese unica, altri hanno proposto al contrario il solo inglese per mettere tutte le imprese nelle stesse condizioni (condizioni anglosassoni, ovviamente). Un caos in cui Francia e Germania sono addirittura arrivate a proporre alle imprese rimborsi per le traduzioni nelle loro rispettive lingue, come riporta Ivo Caizzi sempre sul Corriere il 18 aprile 2011. La situazione non è mutata di molto da allora. La «guerra delle lingue» sembra una guerra tutta inglese, francese e tedesca. L’Italia sta, nella migliore delle ipotesi, in tribuna. La verità è che se vuoi far carriera in Europa è meglio se sei nato in uno dei tre Paesi in «guerra». Il concorso generale per la selezione del personale permanente delle istituzioni europee, promosso dall’Epso (il preposto ufficio della Commissione) nel 2010, prevedeva che la prova d’esame dovesse essere sostenuta in una delle tre lingue, sempre le solite. Nulla, ad oggi, è cambiato: il recente bando di concorso per 247 agenti contrattuali nel settore edilizia, promosso sempre dall’Epso, obbligava all’utilizzo dell’inglese, del francese o del tedesco anche soltanto per compilare la domanda! Organizzazioni come l’associazione «Athena» o la «Società Dante Alighieri» (che si è fermamente opposta alla «rivoluzione» linguistica del Politecnico milanese, e il cui Presidente è Bruno Bottai, tra le altre cose già Segretario Generale della Farnesina dall’87 al ‘94) rifiutano di vedere la nostra lingua relegata alle retrovie, ma c’è ancora molto lavoro da fare. Noi non siamo meri spettatori, cui al più è demandato lo scegliere tra una lingua straniera o l’altra, noi siamo italiani! Non possiamo aspettarci nulla, verosimilmente, dall’attuale Commissario europeo per il Multilinguismo, il cipriota Vassiliou. L’ultimo Commissario italiano a ricoprire un simile incarico fu Antonio Ruberti, dal ‘99 al 2004, ma il Multilinguismo non compariva ancora formalmente tra le sue competenze ed egli si dedicò, peraltro egregiamente, soprattutto ai settori della scienza e della ricerca. Bisogna farsi largo, non serve implorare riconoscimenti, chiedere di stare sul podio: sul podio bisogna salirci, punto e basta, altrimenti lasciamoci l’Europa alle spalle. Questa Europa, almeno, franco-tedesca e chiaramente inglese filo-statunitense.
Il Borghese, giugno 2012, pp. 28-29
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