Non ho mai amato partecipare ai concorsi letterari, per almeno tre motivi…
1) Perché contro case editrici come Mondadori, Einaudi, Rizzoli e simili ci sono scarse possibilità di spuntarla. Un esempio per tutti: nelle edizioni del premio strega, dal 1947 al 2015, per ben 23 volte su 69 ha vinto Mondadori, per 15 volte Einaudi, per 10 Rizzoli, per 7 Bompiani, agli altri le briciole. E il criterio del merito? Qualcuno potrebbe dire che chi pubblica con case editrici così “prestigiose” deve sicuramente avere talento ragguardevole, ma le cose non stanno così. Gli esempi di opere scadenti pubblicate da “grandi” editori sono numerosi (si legga l’articolo L’editoria delle ‘pagine sporche’), per cui non c’è che una conclusione sconfortante: è la bancarella che conta, è dunque il potere che un imprenditore dell’industria libraria ha sul mercato a pesare in maniera determinante sul piatto della bilancia, oltre alla prospettiva di vendita del “prodotto” al grosso pubblico (spesso anche grossolano, quanto meno nei gusti).
2) Perché non mi va di incrementare gli affari di chi organizza la maggior parte dei premi, che poco si preoccupa della qualità delle opere e molto del numero dei concorrenti, capaci di assicurare lauti introiti con le loro quote di partecipazione (sono pochi i premi ad iscrizione gratuita).
3) Perché non ho la minima intenzione di avallare l’inganno che, attraverso poco credibili riconoscimenti, alimenta le illusioni di migliaia di aspiranti scrittori, non raramente privi dei requisiti minimi per un approccio almeno dignitoso alla pagina scritta.
In due occasioni, tuttavia, ho partecipato, mio malgrado, a competizioni del genere: nel 1990 la Vecchio Faggio iscrisse la mia silloge L’errore del tempo, da poco pubblicata, al Premio nazionale Flaiano, di Pescara; nel 1999 un mio fratello spedì, a mia insaputa, un componimento tratto dalla medesima raccolta, al Premio UNITRE, di Chieti. Nelle due circostanze non mi accadde di ricavarne soddisfazioni (nonostante il secondo posto conquistato a Chieti). Il Premio Flaiano, dal quale mi aspettavo almeno una segnalazione, soprattutto dopo gli apprezzamenti di Elio Pecora e di Jorge Amado, fu anzi per me una cocente delusione.
Gli “illustri” componenti della giuria furono impegnati, naturalmente, a rilevare ben altre qualità… ad esempio quelle di Edoardo Albinati e Dario Bellezza, poeti rispettivamente editi dalla Garzanti e dalla Mondadori, che ovviamente finirono nella terna dei premiati ex-aequo, nonostante la discutibile qualità delle loro poesie.
Soprattutto le brutte prose rotte da “a capo”, di Albinati, suscitarono la mia indignazione:
Ieri sera: arrivando al party da Sandra
(ah, sì) stavano ipnotizzando qualcuno chiamato
Morris, nella buia stanza piena di folla, di umido e alcol
illuminata con consapevole spirito bohemien [1]
da candele infilate in vecchie bottiglie di vino.
Il brutto ragazzo grasso, ma forte, stava dicendo
con magistrale forza e padronanza:
«Quando cercherai di passare dalla porta
la troverai sbarrata da un vetro.
Non la potrai attraversare, perché
ci sarà un vetro. Quando dirò “grammofono”
di nuovo ti addormenterai». E i dischi
giravano…
Versi inarrivabili, come si può notare, per i quali le parole pronunciate dalla grande poetessa (così dicono, ma oggi è tutto grande…) Maria Luisa Spaziani, presidente della giuria, suonano senz’altro adatte: “L’augurio della giuria del Premio è che il prescelto darà il là alla nostra visione del mondo e farà riconoscere il nostro decennio nel tempo” [2]. Vale la pena, dunque, di soffermarsi ancora su qualche altro passo del volume Elegie e proverbi dell’Albinati:
Un giorno ti ho intravisto, t’inseguii, ero [3]
a pochi metri da te quando finisce il carburante.
Bloccato in un crocicchio a ruote sgonfie.
Piangevo. La parte migliore di noi, anzi la più geniale
istituisce barriere che impediscono alla genialità di fluire, hai presente
quei tipi [4] che tengono segrete le ragazze? Bene, uno mi telefona
mentre esco di casa, come se le sue informazioni
avessero il potere d’ingenerare pensieri: «Ricordi Beata?
L’hanno trattata alla stregua di una torta
immangiabile…»
(Si legga in aggiunta il passo riportato più sotto, in una nota alla satira Letteratura).
E “uno dei più prestigiosi giurati”, Umberto Russo, ebbe il coraggio di affermare (riferendosi ad altre opere iscritte al concorso): “Si stampa un sacco di robaccia. Ci sono editori che ormai non si vergognano di nulla”… Non si era vergognato, lui, di premiare “versi” come quelli riportati? Di fronte ai quali non potevano certo sfigurare le liriche della mia silloge, nemmeno sfiorate da una menzione (se non magari annoverate fra la “robaccia”…):
Tu manchi, ora che il cielo
aperto ci lascia la luna, adesso
che la luna ha permeato la notte
serena e l’usignolo versa il canto
sulle pallide bocche del sambuco.
oppure:
Ladre di un guizzo
effimere, cadenti stelle
di questa notte
sono gocce sospese
alla grondaia.
o ancora:
In mille sfere
come in mille vele
d’aria
entrano verosimili chimere
per tessere un cielo che nasconda
l’ombra intuita, l’orizzonte vero
il margine vuoto della vita.
Oscillano le barche capovolte
in preda al mare
e il sale incrosta e graffia.
Dopo la risacca
vedessi almeno
i sogni lacerati alla deriva:
brandelli di colori sparsi
come frammenti di un rosone
colpito a morte,
aggrappati a relitti,
sciogliersi.
Ho riportato spezzoni, nemmeno tratti dai componimenti che preferisco.
Perché dunque subire umiliazioni? Meglio tenere le proprie cose lontane da questi impraticabili certami e consolarsi denunciando, magari con una satira come quella che pubblico di seguito, il malcostume dominante (le ottave sono tratte dal poema satirico inedito “L’infinito piatto“).
Letteratura
(Riporto la satira alternando le ottave alle note esplicative).
Se fosse solo il tempo a dare il segno,
avesse il passo, in sé, l’evoluzione
che lascia indietro un decaduto regno,
nessun modello avrebbe più tallone,
sarebbe solo nuovo l’alto ingegno 5
e quel che fu, sfibrata polluzione.
Di fronte, allora, al turgido Barocco
il Boccaccio sarebbe un vecchio brocco.
Se fosse solo il tempo nel suo trascorrere a dare l’impronta del valore (il segno), se il presente incarnasse necessariamente l’evoluzione (avesse il passo, in sé, l’evoluzione) ed il passato un decaduto regno, sempre un’era di superate acquisizioni da sminuire, nessun grande modello avrebbe più “cammino” nella storia dell’umanità (nessun modello avrebbe più tallone), solo l’ingegno contemporaneo avrebbe pregio e l’intelligenza dei tempi andati risulterebbe non più che una sfibrata polluzione, un seme sterile. Stando così le cose, di fronte alla gonfia e sgraziata letteratura del Seicento (il turgido Barocco) il grande Boccaccio farebbe la figura della vecchia schiappa.
Se a qualcuno la storia avesse detto
come alterna l’ascesa ed il declino, 10
qualcuno guarderebbe con sospetto
la mente quando scivola nel vino,
e avrebbe certamente più rispetto
per chi intrecciò il merletto con l’uncino.
L’acqua che sopportava lo sciabecco 15
potrebbe ritrovarsi il letto secco!
Se a qualcuno però la storia avesse insegnato come essa sia capace di alternare ascese e cadute, questi dovrebbe quanto meno insospettirsi di fronte alla mente annebbiata di certe epoche come la nostra (la mente quando scivola nel vino) e avrebbe certamente più rispetto di quei talenti che seppero ricamare merletti (per chi intrecciò il merletto con l’uncino). Un fiume di tale portata da poter sopportare un veliero (lo sciabecco era appunto un antico piccolo veliero con tre alberi) può, ad un certo punto, ritrovarsi con il letto secco.
Un modesto editore intelligente
credette che il valore di uno scritto
per la sua qualità fosse vincente:
tanto credette che lo volle iscritto 20
alla gara del carme, seducente,
che vantando Flaiano, l’ha proscritto,
dove avrebbe potuto l’elegia
vincere morta, più che in agonia.
Nel 1989 la Vecchio Faggio di Chieti presentò al Premio Flaiano di Pescara una silloge di poesie di Amato Maria Bernabei (il sottoscritto, cioè), intitolata L’errore del tempo, con prefazione di Elio Pecora e sinopsi di Jorge Amado (io non avrei tentato, ma assecondai l’editore Gianni Montini, modesto perché piccolo nel settore, non per la qualità della sua produzione). Il Montini credette che il valore di uno scritto potesse imporsi per le sue stesse buone qualità, e fu talmente fiducioso che iscrisse il volumetto al premio nazionale, certamente allettante, che mentre si intitola a Flaiano sembra però avere “esiliato” la memoria del grande abruzzese (che vantando Flaiano l’ha proscritto), premio dove l’elegia sarebbe riuscita a vincere morta, più che in agonia, non in condizioni di genere agonizzante, ma morto addirittura (l’opera Elegie e proverbi, di Edoardo Albinati, edita dalla Mondadori, e classificatasi nella terna dei vincitori, a mio parere offende un po’ ambedue i termini del titolo, o almeno li usa in modo improprio: a me vengono in mente ben altre, vere elegie!). E L’errore del tempo? Ovvio, nemmeno una menzione, o forse il libro fu annoverato per allusione fra quelle opere che, ad essere nominate, avrebbero svilito un premio del genere!
L’improprietà è la degna imprecisione 25
di chi gonfia la dote lacunosa
lodando l’imperdibile occasione,
tanto che la stesura difettosa
diventa una credibile ragione
all’impostura stessa che la dosa: 30
forse così millanta fin che crede
chi delirando al suo delirio cede.
La deformazione, l’esagerazione a cui tutto viene assoggettato, porta inevitabilmente all’improprietà, che dunque è la degna imprecisione, la mancanza di precisione degna del suo artefice, il quale gonfia ad arte le doti carenti del suo prodotto, che loda come imperdibile occasione (da non lasciarsi perciò sfuggire), al punto che finisce per credere alla menzogna che ha costruito (tanto che la stesura difettosa, l’inadeguata formulazione, diventa una ragione credibile per la stessa impostura, per lo stesso impostore che l’ha astutamente misurata, “dosata”). Forse in questo modo nasce la mitomania, così il mitomane vanta le sue fantasticherie fino al punto da ritenerle vere (millanta fin che crede / chi delirando al suo delirio cede).
Il distico perciò, che di sé parla,
come Tibullo intriso di mestizia,
per legno che marcisce o che si tarla 35
o più credibilmente per malizia,
senza più pavimento frana e ciarla,
conserva il nome senza la perizia:
senza Properzio e Goethe, c’è Albinati,
che srotola ricordi trasandati. 40
Con poeti come Albinati, il distico (elegiaco naturalmente e di conseguenza per metonimia l’elegia stessa), che parla di sé (l’elegia è per lo più improntata a confessioni autobiografiche o indulge a sfoghi sentimentali, con una vena nostalgica e malinconica), come avviene nei malinconici componimenti del poeta latino Tibullo, di “romantica indeterminatezza”, secondo il Paratore, non ha più consistenza, non ha basi e naufraga in chiacchiere ordinarie (senza più pavimento frana e ciarla), essendo il “buon legno” classico marcito o avendo subìto l’attacco dei tarli, o più credibilmente avendo ceduto alla malizia di chi cerca di spacciare per nobile anche la sostanza vile! Conserva il nome, ma non certo la maestria (senza la perizia). Alle elegie di Properzio e di Goethe si sono sostituite quelle di Albinati, che però riesce a raccontare soltanto prolisse memorie in uno stile trascurato (srotola ricordi trasandati).
Nella terna che vince, Mondadori
vanta l’artista e vanta la scrittura
che tra l’ordito povero e gli errori
sarebbe incorsa nella giusta cura
al tempo dei valenti professori, 45
subendo una sonora bocciatura.
Tralasciando l’elenco del bagaglio,
il “pò” e le “striscie” sono un doppio raglio!
Sicché nella terna dei vincitori la casa editrice Mondadori poté vantare un artista dalla scrittura davvero precaria, che tra l’ordito povero e gli errori, che nella modesta tessitura, cioè, e per gli errori che presenta, avrebbe certo subìto la giusta cura al tempo dei professori preparati e diligenti: una sonora bocciatura. Infatti, se anche vogliamo tralasciare la desolante debolezza di certi passi, come quello che avvia la Lunga divagazione dalla morte, esibisce davvero ragli da alunno “somaro”, come nel caso delle pagine autografe (17 e 18), dove in una stesura quasi infantile si possono incontrare svarioni ortografici del tipo di “pò” (anziché po’, per troncamento) o di “striscie” (strisce, secondo le regole di formazione del plurale dei nomi in -cia e -gia). Proprio un doppio raglio! (La pagina incriminata della Lunga divagazione è la 19, dove si possono leggere queste immagini e queste cadenze “poetiche”:
…il bimbo dorme, il gatto
si lecca sul petto. Mi riposavo e immaginavo quale
guardaroba ficcare nella borsa da viaggio:
maglietta rossa. Maglietta blu con maniche e
maglietta nera (polo). Giacca color ghiaccio
mocassini leggeri, cintura di tela nera
e granata. Biancheria ecc…, medicinali ecc…, e inoltre pensavo
cosa indossare per il viaggio…
Il modesto editore intelligente
o non fu visto, oppure fu deriso, 50
che non avendo un marchio prepotente
già prima che spedisse fu reciso.
Fra noi qualcuno scrive inutilmente…
scelga un giudizio che sarà deciso:
“mi ci metto che quasi la riduco”, 55
o il vento nelle vele del sambuco?
Che ne fu in quel premio del modesto editore intelligente? Passò inosservato (non fu visto), o magari fu deriso… Del resto, non avendo un marchio forte, una casa “prestigiosa”, era stato cassato prima ancora di spedire il suo volume. Fra me e te, caro Edoardo, qualcuno scrive inutilmente… Sottoponiamo la questione ad un giudice serio e risoluto (scelga un giudizio che sarà deciso): è più bella la frase mi ci metto che quasi la riduco (in pezzi, la ragazza… Che virilità! p. 18 dell’opera di Albinati che abbiamo citata) o un musicale verso qualunque, come questo che scrivo a caso: il vento nelle vele del sambuco? (Il sambuco è una barca a vele latine che si usa nel mar Rosso e sulle coste africane dell’oceano Indiano).
Il cartone che ha l’occhio monetario
benevolmente ride, ma rileva
la forma, la sostanza e lo scenario
della virtù che il disvalore eleva: 60
se l’arte è uno strumento utilitario,
vale per quanti dollari preleva.
Perciò non c’è più testo deprimente
che non abbia il favore della gente.
Il personaggio disneyano che ha il dollaro come occhio (l’occhio monetario, di Paperone) esprime una bonaria e divertente ironia (bonariamente ride), ma evidenzia la forma, la sostanza e lo scenario delle caratteristiche che permettono al falso valore di assurgere a valore assoluto (della virtù che il disvalore eleva; si allude al “valore” del denaro); “scenario” sociale ed economico in cui inevitabilmente l’arte diventa uno strumento utilitario, per fare soldi (vale per quanti dollari preleva) e perde la sua funzione più naturale e positiva. Questa è la ragione per la quale un testo deve piacere alla gente (anche se “deprimente”, scoraggiante) più che avere intrinseche qualità artistiche.
[1]Da notare che bohemien è sostantivo, non aggettivo: dunque “spirito da bohemien”, non spirito bohemien.
[2] È opportuno ricordare che il primo premio fu assegnato a Vico Faggi dalla giuria dei lettori, mentre i giurati presieduti dalla Spaziani avevano proposto ex-aequo Albinati, Bellezza e lo stesso Vico.
[3] Bello il passato prossimo in relazione con il passato remoto…
[4] Meraviglioso! “Hai presente quei tipi”, singolare concordato con il plurale… “Hai presenti quei tipi”, caro poeta premiato (e cara distratta giuria)! Ma di errori l’Albinati è prodigo…
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