IN DIFESA DEL “SUPERATO”
La cattiva arte
è molto peggiore dell’assenza d’arte
Oscar Wilde
Che altri riconoscano dignità metrica anche al verso che non suona, o suona per troppo mutevoli cadenze, che, se mal controllate, snaturano definitivamente la musica, non può, non deve significare che si debba togliere dignità al verso che si volge in costante scansione, conservando comunque intatta la possibilità di respirare per contrazioni o per espansioni, palpitando al suo interno o dilatandosi oltre il proprio confine.
Invece sembra che troppi, per gratuita valutazione, o più semplicemente per l’incapacità o la non volontà di apprendere, di assumere e di gestire uno strumento tecnico troppo complesso, che non è soltanto pulsazione cronometrica, arido ticchettio di un metronomo che accentua i tempi forti contro quelli deboli, ma abilità di fusione della forza lessicale e semantica con quella ritmica, vogliano svalutare la potenza inarrivabile di questo incontro, il valore inconfutabile di quel mezzo.
E troppi credono (o fa loro comodo il crederlo), che l’uso di una siffatta condizione
- che preferiscono intendere piuttosto come condizionamento -, sia solo un impaccio alla libertà del creare. Niente di più falso: soprattutto quando tale libertà si traveste, quando scherma la faciloneria, l’incompetenza, l’incapacità di flettere la sostanza alla forma e questa alla sostanza. Come possono le norme della prospettiva impacciare un pittore? Come le leggi della statica un architetto, il magro spazio di una misura il musicista, il danzatore la rigida struttura del suo corpo e il rispetto dei canoni del passo, del volteggio, del balzo? Non si espande invece in ogni caso l’angusto, verso l’illimitato? Non è vero addirittura il contrario di quanto quelli affermano? Che la regola sospinge cioè al suo rispetto ed al suo superamento (non alla sua trasgressione), attraverso la scoperta e l’adozione di soluzioni sempre nuove? Come avrebbe potuto essere concepito “l’arco capovolto” del Ponte di Brooklyn, senza la necessità di assoggettarsi alla norma risolvendone il rispetto in altra modalità?
Se quanto andiamo sostenendo non fosse vero, le regole strutturali che il Sommo Poeta si è imposto – e non solo nell’assunzione del metro -, avrebbero dovuto condurlo ad un’arida e contratta espressione impoetica, tra mille inibenti difficoltà. Orbene: come mai le più rigide impalcature hanno potuto dare sbocco alla più alta delle opere di poesia?
Sembra darci ragione ancor più la fioritura contemporanea, davvero incontrollata, del “poetare”, il cattivo gusto dilagato, il senso critico impoveritosi, il parametro di valutazione del bello pervertitosi.
È ora di tornare alla distinzione dei generi. Se una prosa può essere poetica ed un componimento in versi prosastico, questo non vuol dire che la poesia deve scriversi in prosa e la prosa in versi, ma che fra i due modi, mentre continua ad esistere una differenziazione assoluta, possono esserci sfumature di contatto, debordando dalle quali si cade nel genere opposto (o quanto meno, diverso).
Nostro intento è quello di recuperare l’abbattuto, non con il miraggio di fasci di luce che proiettano nello spazio l’illusione di quanto è crollato, ma riedificando, con il ritorno a valori consolidati, che non sono il ripescaggio di un secchio arrugginito dal pozzo, ma il rinvenimento e la restituzione di uno splendore di antica civiltà.
Nel nostro caso non una riconsegna del già realizzato, ma il ripiegamento su un modello che le conoscenze acquisite, il pensiero modificatosi – anche di conseguenza -, la lingua rinnovatasi – ma senza isteriche deviazioni -, non usano come stampo, bensì come luminosa e illuminante emanazione, come struttura portante per una costruzione, come tronco per un’operazione di innesto, disposti verso tutte le nuove soluzioni possibili.
È evidente poi che l’arte rimane arte, la poesia, dunque, poesia. Il medesimo impianto può infatti originare prodotti molteplici e difformi, condurre all’espressione del vile come del pregiato. Un valzer è sempre un valzer e non è sempre un Valzer: Chopin e Strauss non sono la stessa cosa che Casadei.
Per concludere vorremmo tornare brevemente, ma con intensità, sull’obiezione che molti avanzano circa l’impaccio che l’adozione del metro comporterebbe. Abbiamo già affermato che questo è falso, ora diremo meglio che è vero per chi artista non è! E diremo di più: l’adesione al ritmo stabilito (quello di costante passo, intendiamo) ed alla rima, che il ritmo sostiene e rinforza nei suoi echi, costituisce elemento di assoluta creatività, sprigiona da sé, perché in sé contiene, le scintille del nuovo e del diverso, promuove la sintesi e controlla l’elaborazione, in una continua, inesauribile imprevedibilità.
Sempre a patto che chi tale strumento usi, abbia spessore per dire e per dare forma a quello che dice.
Soltanto chi ha provato o chi è in grado di farlo potrà comprendere.
E il soggetto?
Il soggetto è un pretesto, un’elezione, un interesse, un tessuto per la confezione, un esempio per la trattazione, uno spunto per l’idea, un’emozione per l’espressione, un elemento di proiezione del mondo ideale e poetico; oserei dire un contenitore più che un contenuto, il quale si avvera non nel tessuto della vicenda, che già esiste, ma nella sua reinterpretazione.
Nel nostro caso il mito classico non vuole spiegare il mondo, nel rispetto della funzione che in origine esso ebbe, ma è la chiave che scopre i nessi dell’universalità, dell’essere uomo al di sopra dei tempi e delle conoscenze, nelle radici che accomunano, e che non fanno differenti i sensi ed i sentimenti, le azioni che essi spingono o arrestano, nell’armonia o nel conflitto; la chiave che si presta perciò ad una lettura sorprendentemente attuale dei comportamenti umani, nei singoli e nelle collettività, risultati dell’eterno confronto-scontro tra la dimensione del razionale e quella dell’istinto, alla luce dei moti che il mistero suscita.
Amato Maria Bernabei
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