JORGE AMADO,
Sinopsi numero 7: Amato Maria Bernabei,
Frammenti dalla preistoria dell’uomo; Canto d’amore e di morte

“Un linguaggio ornato, di greca trasparenza, nel susseguirsi vivace e colorito di immagini ben incasellate in metope delle trabeazioni doriche, trova nitore, robustezza e stilizzazione tematica nel secondo lavoro che appare sostanziato da vibrazioni di una vis lessicale a tratti debordante, a tratti misticamente ricondotta alle zone d’ombra della tonalità minore, a tratti ancora guidata con magia sui piatti binari della logica narrativa.

Ad ampie fenditure nel presente si alternano preferenziali e generose proiezioni nel passato, per nascondere forse “del presente” una sfumata vulnerabilità esistenziale, ben mascherata qua e là lungo visibili brecce verbali.

Assente infine appare la concezione modernamente sperimentale della scrittura poetica.”

traduzione di Silvia Calzolari
in Novos Quadernos, anno XIV, n.3
Canção editora, Bahia. Novembre 1989
 
 
 
 
 
 

PREFAZIONE A CURA DI ELIO PECORA

L’urgenza di scrivere (per di più di scrivere in versi, di tentare la poesia che è allo stesso tempo, visione-emozione-confidenza) nasce certo dalla scontentezza. Nell’Eden la creatura sta, non giudica, non confronta, non desidera. Invece, nella vicenda terrena, l’uomo fin dai suoi primi anni va immaginandosi un’armonia ed un bene che subito gli si presentano impossibili. La nostra è una storia di fatiche, di divieti, di attese interminabili e sempre deluse. Pure ciascuno si porta dentro, venuta chi sa da dove, radicata nella memoria e nel cuore, una promessa di totale definitiva felicità. Contro una simile promessa va scontrandosi quel che la quotidianità porta, ripete, consuma. Dunque la brevità della vita, la precarietà di ogni bene, la fragilità di ogni amore, la presenza ininterrotta del dolore, la minaccia costante del morire.

Il poeta però, o colui che accosta la poesia e la tenta, s’oppone a tutto questo ricreando e ripetendo l’essere nel suo farsi e disfarsi, nella sua ebbrezza, nella sua verità. Tanto accade nei componimenti di Amato Maria Bernabei, che fluiscono dentro strofe folte e brevi, a volte in prolungate elencazioni, in accese evocazioni, per versi ora veloci, ora trattenuti, dentro rime ed assonanze, e in una lingua che quasi mai s’allontana dalla nostra tradizione poetica, ma che si lascia, senza infingimenti e senza pudori, alla preghiera, alla riflessione, alla visione ferma e malinconica.

Ed è proprio la malinconia, come sentimento estenuante ed avvolgente ed estremo, a muovere gran parte di queste pagine. Ché tutto della giornata umana, e di quel che ci spetta e ci attende, porta qui a domande ultime, amare e sospese.

Così l’amore, che pone fra gli amanti un muro invalicabile; così il tempo che avvolge e consuma ogni cosa (“…le cose immerse / in questo fiume misterioso / che ha sempre acqua, / e mai le stesse gocce“); così il sogno che si confonde alla veglia (“Mi dissero che il sogno / non ha senso, / ma qual è il senso / del non-sogno?“).

Dietro tanta sconsolatezza troviamo però un’attenzione amorosissima verso quel che ci circonda e comprende. Molte volte appaiono qui alberi e cieli ed acque, vi mutano stagioni, vi passano le ore della luce e dell’ombra. Perciò la solitudine, di chi ha provato la sua voce ed è arrivato ad esprimersi con gli strumenti della poesia, finalmente si stempra nella visione di una realtà più estesa e colma. Perciò, anche stavolta, la parola si libra per divenire canto, che un poco dà compagnia e un poco consola.

                                                                            ELIO PECORA

Roma, ottobre 1989

 

Alcune liriche tratte dalla raccolta “L’errore del Tempo

Hanno detto…

Che cos’è la poesia?

 

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