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COME SI DIVENTA POETI

  

Poeti si nasce o si diventa? 

La risposta è forse inattesa:
sono vere le due ipotesi contemporaneamente!
Infatti il poeta sortisce la sua inclinazione geneticamente,
ma senza un duro, costante addestramento che investa la lingua e la tecnica del poetare,
è destinato a rimanere tale come “potenza inespressa”,
come patrimonio mai fecondato e dunque sterile.

 A cura di Piergiorgio Boscariol

  

PREFAZIONE 

 

Le parole sono scrigni che traboccano di valori.
Nella costruzione poetica, esse si dispongono in un ordine
atto a produrre sonorità che emulano il canto delle sirene,
e, affascinando, rivelano verità universali.

L’opera raccoglie complessivamente un centinaio di liri­che, di cui circa la metà strutturate, appunto, secondo le re­gole della versificazione, proseguendo, in tal modo, il pro­getto dell’Associazione culturale Dante Alighieri: laborato­rio di poesia classica, che, in collaborazione con l’editore Vincenzo Grasso, da alcuni anni promuove la Rassegna Nazionale “Cento poesie e una Lyra”.
Pertanto, anche l’edizione 2011 della Rassegna è stata in­detta allo scopo di divulgare l’amore per la poesia fra colo­ro che hanno a cuore l’arte e la cultura italiane. E, come di consueto, si è data ospitalità ad autori di diversa estrazione per età, preparazione e livello culturale, sia in lingua che in dialetto, i quali, nell’aver accettato di cimentarsi nell’arte della versificazione, ove richiesto, hanno potuto avvalersi dell’ausilio degli esperti con suggerimenti, chiarimenti, se non addirittura con corsi di formazione. L’affiancamento, tuttavia, non poteva che limitarsi alla didattica degli schemi metrici, cioè a quell’insieme di regole-vincoli che si carat­terizzano per essere preliminari, o più astratti, dei fatti lin­guistici. Altro è ciò che attiene al discorso poetico nella sua enunciazione, vale a dire alla prosodia, all’intonazione, all’intensità, alla durata e cosi via: nel primo caso, infatti, si parla di un elemento oggettivo “dato”, rigido, nel secondo di un elemento soggettivo, mobile, ascrivibile solo alle atti­tudini personali di ciascuno.
Dal novero degli autori emergono personalità la cui va­lentia spicca significativamente. Sono poeti affermatisi con opere di successo, che ringraziamo per non aver fatto mancare la loro presenza, la quale non solo conferisce prestigio alla rassegna, ma offre modelli di poetria moderna, di grande utilità per gli aspiranti poeti.
Certo, quando si parla di poesia, ciò che può essere rite­nuto tale da qualcuno, potrebbe non esserlo per altri. In questo campo, infatti, anche il gusto gioca la sua parte. Poe­sia è una nozione relativa che si trasforma e assume valore diverso in rapporto a numerose variabili. Essa viene ad avere una funzione specifica, determinata di volta in volta dal potere politico e culturale e assume importanza in ra­gione dell’orientamento politico vigente, per cui spesso è soggetta a una antica e pervicace malattia che ne deturpa il volto rendendolo pressoché irriconoscibile: la tendenza a prestare attenzione più al contenuto che alla forma, sotto­valutando l’idea artistica realizzata nell’opera. Poco conta che essa sia verso, ritmo, musica e figure, poco conta la ma­terialità del suo porgersi in suoni e parole, se la maggior parte della critica è condizionata da motivi dominanti, da ideologie esplicite e deve spendersi in rappresentazioni em­blematiche della società. Prova ne sia il disprezzo in cui è tenuta nella nostra scuola la competenza metrica che è cer­to un aspetto ineludibile della competenza letteraria, cosi come lo sono gli altri fattori della letterarietà, cioè le con­notazioni relative all’uso della lingua che ne fanno i ceti più colti e costituiscono il valore precipuo della poesia. Questa in certe epoche ha avuto un’importanza straordinaria, come nel Rinascimento. In alcuni Paesi la mantiene ancora oggi, in altri, come in Italia, la sua presenza nei circuiti scolastici si riduce all’esercizio della parafrasi, e ne viene cosi morti­ficato il valore estetico. A differenza di ciò che si verificò in Francia e in Inghilterra, dove fino all’Ottocento sulla poesia prevalsero altri generi letterari (teatro e romanzo), in Italia essa ebbe il compito di incarnare la lingua italiana. In gene­rale tuttavia si può dire che ovunque è stata il dominio dell’eccellenza stilistica e della capacità immaginativa, una for­ma superiore del dire, ove la cosa significata e il suono delle parole coincidono in maniera perfetta. Quella della poesia è una lingua ricca, con essa sembra recuperata l’integrità della lingua pre-babelica, come dimostra la diffusa con­vinzione che i poeti dicano la verità. Lo stesso non può dirsi dei romanzieri. Il poeta usa la lingua come essa è usata nel­la rivelazione e nella profezia: le sue immagini recano ne­cessariamente il carisma della verità.
Bisogna però osservare che, fra tanti che scrivono, solo pochi hanno attitudine alla poesia. Scrivere materialmente non richiede granché: bastano una sufficiente conoscenza della lingua, una penna e un foglio di carta. Ma la sola cono­scenza della lingua non implica che la stessa si sappia trat­tare artisticamente. Per non rischiare di vivere di illusioni, chi si accinge a scrivere poesia deve prima di tutto sapere che lo attende un grande lavoro su se stesso in qualità di autodidatta perché, come tutte le discipline artistiche, an­che la poesia ha le sue regole, i suoi segreti che i neofiti non possono ignorare, e per quanto Giordano Bruno affer­mi che la poesia non nasce dalle regole, ma queste dalla poesia, non basta l’istinto, e non esistono istituzioni, scuole o maestri che istruiscano formalmente all’arte della poesia. Si diventa poeti con lo studio e con la pratica e comunque si avrà sempre l’impressione di essere alle prime armi. È sulla buona strada chi dispone di un bagaglio di buone let­ture, dotato di senso critico soprattutto verso se stesso, ad­destrato a sorvegliare le proprie emozioni e disposto a met­tersi continuamente in discussione avendo il coraggio di “togliere”, “togliere” il più possibile. La poesia è sintesi; per far lavorare l’immaginazione non può mai essere ridondante.
Nel testo poetico, infatti, il messaggio si affida largamente al “non detto”, all’”implicito”, al “presupposto”.
Generalmente, quando si parla di poesia, ci si riferisce a testi letterari formalmente strutturati, distinti dalla prosa, che nei vari sistemi susseguitisi formano l’arco della nostra tradizione poetica. Questo, partendo dalla metrica classica quantitativa, attraverso la ritmica mediolatina e romanza, è giunto nei tempi recenti alla versificazione “libera”. È il caso qui di precisare che pare ingiustificato estromettere larga parte della poesia moderna dall’area della strutturazione me­trica. Non e condivisibile l’idea di chi sostiene che la “forma liberata di un gran numero di poeti moderni costituisce una prosa lirica cadenzata e non una versificazione misurata” [1]. Il fatto è che tutte le categorie designate per tradizione a con­notare la fisionomia propria dell’”oratio ligata” si rivelano ina­deguate a discriminare il discorso metrico nella totalità delle sue manifestazioni da quello prosastico, compreso il ritmo, perché un ritmo c’e anche nella prosa. Né discriminante può dirsi la rima, diffusasi a partire dall’ambito prosastico (quello della prosa retorica), ma divenuto in seguito una conno­tazione tipica della poesia, ancorché solo ornamento inessen­ziale. In sostanza, il vero tratto distintivo che perduri invaria­to attraverso le diverse fasi della tradizione poetica occiden­tale resta la suddivisione del discorso in unità versali. Gio­verà, infatti, ricordare come anche nella versificazione libera la segmentazione vada per lo più associata ad altri fattori di metricità, diversamente combinati, nuovi o tradizionali, pre­sentati nella loro pienezza o discreti e travisati.
Ma cos’è il metro? Il greco metron, “misura”, latino me­trum, e con un termine diverso, ma dipendente dal mede­simo concetto, “verso”, nella metrica romanza è lo schema normativo che sovraintende alla composizione del linguag­gio poetico versale. Ogni tradizione letteraria in una data lingua possiede i suoi metri che costituiscono il sistema con­venzionale, riconoscibile nel tempo, di una cultura e di un pubblico, in base al quale ogni lettore potenzialmente ri­conosce la conservazione e la novità di ciascun componi­mento e autore. Nel patrimonio di ogni tradizione sono compresi uno o più metri esemplari di quell’area linguistico-letteraria. Alla tradizione classica può collegarsi come preponderante l’esametro, a quella italiana l’endecasillabo e il settenario, a quella inglese il pentametro giambico, a quel­la francese l’alessandrino. Per semplificare, la teoria assume come unità minima del verso la “posizione”; ogni posizione metrica può essere saturata da una sillaba oppure da due sillabe (sinalefe, sineresi), oppure ancora una sillaba-ditton­go può saturare due posizioni metriche (dieresi).
Nella versificazione, comunemente definita “tonico-silla­bica”, il modello metrico di ogni verso è dato da un numero fisso di posizioni e da un “ictus” [2] fisso, che cade su una de­terminata posizione, l’ultima posizione corrispondendo all’ultima sillaba accentata. Per la verità non si sa esattamente come facciano i poeti a realizzare versi rispettando un me­tro. Ha dichiarato Ungaretti: “I novenari, i settenari, gli en­decasillabi, i quinari, non essendo per me mai schemi, non mi nascono dunque dopo trovate le parole, per partito pre-so; ma mi nascono insieme alle parole, muovendone natu­ralmente il senso”.
II metro non è sufficiente a definire il verso; sono la se­quenza in cui compare e l’assetto generale a guidarci verso la sua decifrazione. Neppure il solo “a capo grafico” è suf­ficiente: anche nei titoli si va a capo. Ciò che suscita l’ipote­si che si tratti di “versi” spinge ad attivare la nostra compe­tenza del metro. In altri termini il verso non è solo un prodotto della volontà dell’autore, ma richiede la disponibi­lità, l’attenzione, l’assenso del lettore.
Certo è che tra Otto e Novecento è cambiata la coscien­za metrica di autori e lettori di poesia.
I formalisti ne avevano preso atto nel momento in cui hanno retrocesso il metro a una delle tante componenti del ritmo promovendo quest’ultimo a culmine del verso. Non a caso Pascoli parla di “coscienza ritmica” a proposito del no­venario di 2a, 5a, 8a e lo sente perfino nella prosa, nel de­butto dei Promessi Sposi (“Quel ramo del lago di Como”). Sente cioè la forma ritmica di un verso “nuovo” da lui me­desimo riesumato consentendo all’elevazione del ritmo co­me nucleo preciso, “piede moderno”. Cosi il primo Palaz­zeschi: “Il parco è serràto, serràto, serràto / serràto da un muro / ch’è lungo le mìglia, le mìglia, le mìglia ” o Campana: “Le véle, le véle, le véle / che schioccano e frustano al ven­to / che gónfia di vane sequéle / le véle, le véle, le véle”.
Quanto al ritmo [3], ricordiamo quanto affermato da Octavio Paz: “Senza ritmo non esiste opera poetica; con il solo ritmo non esiste prosa. Il ritmo è condizione dell’opera poetica, mentre è inessenziale per la prosa” [4]. Ma per Hegel: “La linea di demarcazione, al di là della quale la poesia cessa e in­comincia la prosa, si può tracciare solo con molta difficoltà e in generale non può essere indicata con netta precisione” [5].
Vero è peraltro che il ritmo è percepito immediatamente dall’ascoltatore e dal lettore di poesia. II metro, cioè la misura del verso, no, per cui il ritmo può stare senza metro, ma non viceversa.
Gli accenti ritmici (ictus) tendono a coincidere con quelli naturali delle parole. Si danno però versi in cui le parole vengono ad acquistare accenti secondari, che non hanno, se prese singolarmente. Un esempio: “0 rabido ventare di sci­rocco”, è il primo verso di “L’agave sullo scoglio” in Ossi di seppia di Eugenio Montale. Le sillabe naturalmente rilevate sono: ra -, – ta e – ro. La posizione in cui si trovano le rende il secondo elemento di un giambo, cioè il piede bisillabico di cui è accentata la seconda unità: O, ven, sci. L’orec­chio percepisce chiaramente questa figura sonora che ricorre ed è portato a riconoscerla automaticamente anche negli in­tervalli della ricorrenza. Le sillabe che riempiono questi in­tervalli, in realtà, sono tutte sillabe atone. L’orecchio le inve­ste di un accento (accento di posizione), consentendo al rit­mo giambico di occupare tutta la durata del verso. Dunque si avranno anche i seguenti giambi: bi, re: Il ritmo ha trascinato questi nuclei sillabici in un flusso che non coin­cide più con quello della parola semantica. Prima dei forma­listi russi lo aveva enunciato il venerabile Beda: “Et quidem rythmus per se sine metro esse potest, metrum vero sine ry­thmo esse non potest”.
Ora, “poiché il discours, cioè l’enunciato nel modo per­sonale di esprimere il pensiero, è l’organizzazione di ciò che è in movimento nel linguaggio, il ritmo è l’organizzazione del movimento della parola che rinvia all’enunciatore di quella parola, cioè al suo soggetto” [6].
La valorizzazione del ritmo è alla base della poesia mo­derna. Il verso libero della tradizione novecentesca si fonda sull’idea che sia il ritmo, non il metro, la sostanza della poe­sia: il ritmo è l’individualità, il metro la norma.
Nonostante a rivendicare il primato dell’affrancamento dalla metrica siano i simbolisti francesi, in realtà il “vers li­bre” nasce decenni prima. Già Goethe nei Freie rhythmen pratica una forma di metrica sillabo tonica – ed e risaputo quanto fosse impastato di classicità il grande tedesco – se­guito dai poeti dello Sturm und Drang e da Hölderlin. E an­cor prima Klopstock aveva creato un verso libero a imita­zione degli antichi. Poi nel 1800 l’inglese Coleridge in Chri­stabel si inventava il verso tonico organizzato in una se­quenza di accenti fissi, indipendentemente dal numero di sillabe, e cosi Heine nel 1827 nella sua Lorelei.
Dal rifiuto delle regole e dell’arte muove anche il giovane Leopardi, il più importante metrico della nuova lirica italia­na e il più geniale teorico del verso che possiamo trovare tra la fine del classicismo e il trionfo del verso libero: “Il danno dell’età nostra è che la poesia si sia già ridotta ad arte, in maniera che per essere veramente originale bisogna rompere, violare, disprezzare, lasciare da parte intieramente i costumi e le abitudini e le nozioni di nomi di generi rice­vute da tutti, cosa difficile da fare” (Zibaldone di pensieri) [7].
Il verso leopardiano è una fervida officina di innovazioni. La più evidente è il divorzio del metro dalla sintassi, come ne L’Infinito e in A se stesso. Le misure sono ancora quelle di una volta (endecasillabi e settenari), ma non corrispondono più a unità di senso convenzionali [8]. Con A Silvia nasce la canzone libera. Il metro, che combina liberamente endeca­sillabi e settenari e distribuisce le rime secondo schemi im­prevedibili, e ripreso dal Tasso dell’Aminta e, in ispecie, del­l’idillio Amor fuggitivo. La novità del Leopardi consiste nell’aver fissato questa verseggiatura in periodi ritmici autono­mi, che rompono con il modello della canzone petrarche­sca. Il Leopardi dice anche che la poesia non sta necessariamente nel verso: “L’uso ha introdotto che il poeta scriva in verso. Ciò non è della sostanza né della poesia né del suo linguaggio e modo di esprimer le cose. Vero è che questo linguaggio e modo, e le cose che il poeta dice, essendo del tutto diverse dalle ordinarie, è molto conveniente, e giova moltissimo all’effetto, ch’egli impieghi un ritmo diviso dal volgare comune, con cui si esprimono le cose alla maniera ch’elle sono, e che si sogliono considerare nella vita… L’uo­mo potrebbe essere poeta caldissimo in prosa, senza veruna sconvenienza assumere interissimamente il linguaggio, il mo­do, e tutti i possibili caratteri del poeta” [9].
Alla fine dell’Ottocento Gustav Kahn, teorizzatore del ver­so libero francese, poneva tre condizioni:
-  la lunghezza del verso e il suo ritmo dovevano essere dettati dall’idea poetica (sconsigliava l’enjambement);
-  la rima doveva poter essere surrogata dall’assonanza e soprattutto dall’allitterazione, come nuova struttura armoni­ca del verso;
-  anche la strofa, come il verso, doveva essere modellata liberamente secondo il movimento del pensiero.
In Italia la liberazione fu più tarda e graduale ed ebbe connotazioni in parte autoctone, in parte condizionate da esperienze d’oltralpe (Petits poèmes en prose di Baudelaire), ma non solo dai Francesi, anche ad esempio dall’americano Walt Whitman (Leaves of Grass), il quale propose un origi­nate “verso lungo”, strutturato soprattutto su ripetizioni, ca­denze, allitterazioni e iterazioni, un “free verse” ch’era una sfida e un’emancipazione della poesia americana dalla tra­dizione inglese, e quindi europea.
Una via tuttora italiana a una innovazione ritmica e me­trica è la metrica “barbara” con cui Carducci tenta di intro­durre nella metrica accentuativa la metrica quantitativa dell’esametro greco-latino. In Sogno d’estate gli esametri sono formati per lo più da un settenario e da un novenario, an­che da un quinario o senario sdrucciolo e da un decasillabo, da un settenario e da un ottonario.
Lo stesso Pascoli, come già accennato, utilizza il novena­rio dattilico erodendo la tradizione senza sconvolgerne l’im­pianto istituzionale. E D’Annunzio, sulla scorta della metri­ca quantitativa, sa che metri di differente consistenza ven­gono percepiti dall’orecchio come equivalenti.
Fra gli Italiani anticipatori del verso libero, sia pure slegati dalla successiva corrente di fine secolo, si ricordano Niccolò Tommaseo con la traduzione dei Canti del popolo greco e dei Canti illirici e Luigi Capuana con i Semiritmi. Mentre i veri e propri iniziatori del verso libero in Italia sono i simbolisti Sormani, Quaglino, Sinadino, ma soprattutto Govoni che alla fine approda al verso lungo di tredici sillabe e a una libe­razione metrica sia versale che strofica con Aborti (1907).
E finalmente irrompe il movimento futurista con Marinet­ti, attorno al quale si raccolgono alcuni innovatori della no­stra poesia come Soffici e Palazzeschi. Nella prima antologia dei poeti futuristi (1912) non appaiono ancora le famose “pa­role in liberta”, ma filze di versi liberi carichi di immagini e di metafore che rivelano varie influenze sia del simbolismo francese, sia della scapigliatura italiana. Solo con L’aeroplano del Papa, definito “romanzo profetico in versi liberi” e con il poema La battaglia di Tripoli egli raggiunge lo stadio più avanzato della tecnica espressiva della parola in libertà.
Anche il primo Ungaretti risente delle frequentazioni dei poeti francesi del verso libero. Più di tutti su di lui hanno influenza Apollinaire e Mallarmé, ma forse prima ancora Ju­les Laforgue. In Ungaretti l’enunciato rallenta, si riduce ad un minimo, cosicché i vocaboli contratti diventano “centro del verso”: “Lasciatemi cosi/ come una cosa/ posata/ in un angolo/ e dimenticata”.
Ma il secondo Ungaretti e la moderata libertà metrica di Montale appaiono oggi sempre più una mossa e varia restaurazione metrica [10].
Nel ventesimo secolo il primo a puntare i riflettori sulla questione del verso libero è stato Thomas S. Eliot, uno dei poeti più influenti del mondo. In un saggio del 1917, Re­flections on Vers Libre, Eliot rifiuta categoricamente l’idea del verso libero e, con questa, l’opposizione tra metrica chiusa e metrica libera: “Non c’è libertà in arte. E il cosid­detto “vers Libre” e tutto tranne che libero” [11]. E ancora in Se­lected prose: “Dietro l’arazzo anche del verso più “libero” dovrebbe nascondersi il fantasma di qualche metro sem­plice [...]. La libertà è libertà veramente solo quando appare sullo sfondo di una limitazione artificiale”.

Piergiorgio Boscariol

 


[1] P. Guiraud, La versification, Presses Universitaires de France, Paris 1978, pag. 110.
[2] Ictus: dal lat. icere, “colpire”. Nella metrica classica, l’atto meccanico del battere del piede, della mano, della bacchetta, nel­la scansione del ritmo poetico, per avviarlo.
[3] Il termine “ritmo” è connesso con il verbo gr. rheo, “scorro”, a indicare gli aspetti mutevoli della realtà. Per Aristotele ha anche il significato di schema. Fino alla meta del V sec. ha avuto anche il significato di “carattere” (cioè forma di sentimento). Solo con Platone il termine assume il significato che ha attualmente: movi­mento regolato della danza e della musica.
[4] Octavio Paz: (Città del Messico 1914-1998) Premio Nobel per la letteratura 1990. “Verso e prosa” in L’arco e la lira, Il Melango­lo, Genova 1991, pag. 72.
[5] Georg Friedrich Hegel, Estetica, a cura di N. Merker, Einau­di (To) 1997, vol. II, p. 1127.
[6] Gerard Dessous, Henri Meschonnic, Traité du rhythme, Dunod, Paris, 1998, p. 26-27.
[7] “Cosa dalla quale si astiene ragionevolmente anche il savio, perché le abitudini vanno rispettate massimamente…” prosegue però il Leopardi (nota del curatore della pagina, Amato Maria Bernabei).
[8] Prima del Leopardi sicuramente il Foscolo aveva adottato questo espediente (Alla sera, un esempio per tutti), ma l’enjambement è reperibile in tutta la tradizione nostrana, in Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso e via dicendo (nota del curatore della pagina, Amato Maria Bernabei).
[9] Come del resto ha dimostrato ampiamente il Manzoni ne I Promessi Sposi (nota del curatore della pagina, Amato Maria Bernabei).
[10] Gianluigi Beccaria, Dizionario di linguistica e filologia, me­trica, retorica, voce “Verso libero”, Einaudi 1994, 1996 e 2004.
[11] Thomas Stearns Eliot, Reflections on Vers Libre, Lincoln Uni­versity of Nebraska Press 1991, pagg. 34-35.

 

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