QUESTO È IL MIO SANGUE

di Francesco Mercadante

 

BREVE NOTA CRITICA

La Sacra Sindone

Contrasto quasi insolubile fra l’umanità, finalmente davvero “umana” del Cristo, e la sua divinità.
                                                        La sostanza contraddittoria dell’Uomo-Dio in cui l’Uomo-Diabolos (diabolos deriva dal greco διαβάλλω = separo) rappresenta l’elemento dicotomico dell’ossimoro di una trascendente “divisa unità”, che solo attraverso la sua doppia natura può entrare in contatto con l’immanenza, con “l’altro nel mondo”, è il “motore”, ed insieme il fondamento e la giustificazione, di tutto il percorso dell’opera di Mercadante, più saggio poetico, teologico e filosofico che romanzo ad litteram, in ogni caso, testo di letteratura.

            Sorprendenti, paradossali, ma schiettamente plausibili, i comportamenti che stridono con lo schema tipico della tradizione, al punto da sembrare irriverenti (penso ad esempio alla “prurigine erotica” del Cristo alla vista della Samaritana), ma che sono tuttavia il sale dell’intuizione su cui si fondano l’originalità e il fascino dello scritto. Non il solito polpettone pervaso di misteri da scoprire e di suspense da thriller, gremito di dubbi da accendere e di credenze da demolire; non l’uso di mirabolanti incursioni in un passato da cui scaturiscano interpretazioni da far inarcare le sopracciglia sulla base di poco attendibili ritrovamenti, ipotizzati o mistificati, e di intrecci da film di gotica o di comune avventura, orientati da bussole impazzite verso continue e mai prevedibili svolte.

Una visione, invece, misurata ed onesta, che tenta di dare una dimensione biografica del Cristo sfrondata da elementi mitologici, per quanto aperta ad accogliere ipotesi non proprio “canoniche”, come quella che considera l’unione in matrimonio con la Maddalena nelle Nozze di Cana, avanzata nel 1982, diciotto anni prima della scaltra operazione editoriale di Dan Brown, nel libro di Baigent, Leigh e Lincoln, The Holy Blood and the Holy Grail, tradotto in italiano nel 2005 da Roberta Rambelli, per la Mondadori, con il titolo Il Santo Graal.

Forse sorprende il tono di un Gesù che impartisce, più che ammaestrare, che pone in quasi servile soggezione la fratellanza, più che affiancarsi ad essa e comprenderla, e benevolmente guidarla. I discepoli appaiono troppo attenti a non “provocare” il Maestro, per evitarne reazioni spiacevoli, se non addirittura l’ira; e questi pare distante nella sua “orgogliosa” superiorità, in un’ “autorevolezza” che sfiora non di rado il piglio autoritario, se non addirittura il dispregio (La tua ottusità è bestiale, Giacomo!). Del resto il Mercadante osserva che egocentrismo, orgoglio, autostima, amore di sé, sono indispensabili attributi della leadership, qualità in grado di conquistare credibilità e di “fortificare indirettamente l’identità altrui, generando libertà e benessere a vantaggio di tutti”. A maggior ragione in colui che non può non essere “protagonista indiscusso e glorioso” sulla via dell’eternità.

Cristo si staglia più nella sua sincera carnalità che nella sua divinità, quasi un orpello da portare in relazione alla tradizione evangelica: d’altra parte la fisionomia scelta dal Mercadante per il suo personaggio vuol essere quanto più fedele all’espressione biblica “Il Verbo si è fatto carne ed abitò fra noi”: non si può scegliere di essere uomini e di abitare fra gli uomini negando l’interezza della propria umanità.

La sostanza dell’itinerario proposto non è “fisica”, non è fatta di spazio da percorrere o di luogo da raggiungere: l’andare è semplicemente un vivere in funzione di una meta spirituale, un vivere non misurabile, né in termini di durata, né tanto meno di incomunicabile, e dunque incomprensibile, eternità. Anche per questo lo spazio fisico si annulla totalmente, laddove il cammino supera la storia per essere presente in ogni suo attimo, non individuato in un preciso momento, ma in tutti i momenti del tempo dell’uomo, acronico rispetto alle epoche, sincronico rispetto al succedersi degli avvenimenti: “la somma condizione del viaggio: esser presso tutto e presso nulla”. Nello stesso modo “l’acqua della vita eterna è dappertutto”, mentre l’uomo tende a trasformare ogni cosa “in un limite”.

Perfino il pensiero sembra perdere una sua logica connotazione, tessendo le sue trame attraverso andamenti talora rigorosi, talaltra visionari, in un’alternanza di tecniche narrative che richiamano alla memoria, inevitabilmente, il modus joyciano: espedienti tutti che, comunque, esprimono piena e congruente adesione all’assunto. In fondo, la stessa sostanza dell’Uomo-Dio ha in sé il contrasto dell’oksýmōron, l’acuto-sciocco etimologico, che trova fatalmente sbocco in corde dissonanti, ma non per questo, incompatibili, almeno nella prospettiva del Cristo concepito dal Mercadante. Sostanza dalla quale paiono scaturire tutti gli opposti coincidenti, la cui pregnanza è chiaramente palese nel binomio colombe-serpenti.

Il contrasto più significativo, quello fra la natura di Joshua e l’essenza del Christòs, si riflette sul modus agendi del personaggio “trasfigurato”, la cui dimensione, non potendo essere compresa dai discepoli e dalle donne del seguito, genera comportamenti per loro inspiegabili, accettati solo in funzione del carisma del Maestro e dell’adesione fideistica alla sua Missione. Del resto era stato San Paolo, “l’Apostolo delle genti”, ad intuire per primo che per favorire la diffusione del Cristianesimo, e quindi garantire un successo perlomeno numerico, se non qualitativo, alla nuova religione, occorreva, paradossalmente, sostituire l’insegnamento di Gesù con il culto della sua persona, del suo corpo e del suo sangue, cosa ben comprensibile per le masse popolari pagane. Fu così che il Maestro Gesù divenne “il Cristo”, da adorare, da invocare, da utilizzare come protettore e mediatore nei confronti della severa divinità, finalmente placata dalla morte di Gesù, reinterpretata da San Paolo quale “sacrificio espiatorio” per le colpe dell’umanità. Perfino il nome con cui sarà conosciuto Gesù è un ibrido sincretismo: Gesù Cristo, ossia Joshua Christòs, il primo nome ebraico, il secondo, greco.

 Amato Maria Bernabei

Vetrate di Saint Germain l'Auxerrois, Parigi; dray-le-Monial e della Cattedrale di Rouenella Basilica di Pa

A titolo esemplificativo si riporta l’inizio della seconda parte del romanzo

SETTE CANTI CRISTICI

 PRIMO CANTO: KYRIE ELEISON

    Infreddolito, il cappotto impataccato, passeggia il disertore di messe cantate o sagre di replicanti ben pagati, rasente il ciglio della viuzza, dove raccoglie lemme lemme pezzi di vegetazione sacra, soprappensiero, digiuno da più giorni.

La sacerdotessa splende antropofaga di vivo rosso. Quando ancora non sapeva d’essere olocausto, osava predicare anche da solo, dall’alto d’una rupe, persuaso, com’era, che qualcuno, presto o tardi, lo avrebbe seguito, incauto per natura nel vivere o morire, parola dopo parola, treno dopo treno, visto passare sui binari di campagna, lungo un fiume, mai preso presso una stazione: la sposa non arrivava, a mala pena si faceva intravedere negli abiti dei passeggeri come tunica di lino d’antichi maestri.

SECONDO CANTO: SONO IL DEBOLE CHE NON HA COLPA

   Ho mangiucchiato i contorni del corpo, affamato, come residui di un pasto conservato già da troppo tempo, unico avanzo rappreso ed ammuffito di banchetti listati a lutto per la scomparsa di sconosciuti, ma ricchi di crapuloni ed imbiancati da grandi luci a neon.
Oltre la carne digerita, ricordo che non ero solo, tuttora non lo sono: qualcuno s’è unito a me. La scala è priva di pioli, i miei piedi affondano buffi e goffi nella scena eroica.
Achille ed Ulisse accorrono al mio grido: il ventre gonfio per bisboccia, alticci, in affanno, vogliono salvarmi senza sporcare il doppiopetto.
Da lungi, si sente la voce chioccia e stridula d’un Belzebù, uno dei tanti poveri diavoli: “È un gioco senza scopo, un simbolo in azione! Tiratelo fuori!”.
Sulle cronache stampate dei giornali di provincia ci si chiede ancora come sia svanito un uomo che poteva contare sull’aiuto dei semidei.

TERZO CANTO: POETI UNTI

    Un poeta è seriale, tra i canini lo stuzzicadenti non può svellere le carni purulente che l’omicida colleziona per la pancia.
Due poeti s’accusano ruminanti senza disciplina a vicenda, si rincorrono per consegnarsi alla giustizia di giurie che falciano frattanto braccia e gambe, strappano nasi ed occhi offrendo in premio l’agonia, sono protettori di omini sonnolenti, limpidi appesi ai lobi di chi cammina verso terre sante.
Tre poeti sbucciano le patate, al buio, gl’inguini fin troppo disossati per abituarsi, baciati dagli dei, alla perversa opacità delle belle arti. Il primo è creatore, il secondo, già penultimo, brucia nella sostanza della creazione, l’ultimo, terzo della serie, è votato alla saga del paese, dove null’altro che un feto sputato fuori all’improvviso da puttane convertite e che gemono scalze lungo strade cosparse di metalli acuminati incandescenti e carcasse imbottite di vermi, può dar vita.
Un nano ermafrodita scende dall’albero, dopo mangiato mela e serpente, Adamo ed Eva, scambia chicchi di grano per pietre preziose, strisciante in coma liturgico si costituisce: quarto poeta con la testa sanguinante di bambino muto.
I padri mentono, le spalle al crocifisso capovolto, volto al cielo lo sguardo, quasi imbiancando la presenza, vaneggiano di lirismo.
Si batte il tempo al suono di costose sonagliere d’atelier perché si faccia avanti, con sfumature d’eleganza, dentro reami sconfessati, il quinto poeta, che tarda ad arrivare, sebbene amanti in salamoia lo attendano profeta benefattore, non più fannullone o brigante della fandonia piantato in asse dal fermento della vita.
È morto. Sei poeti alzano le sopracciglia, si sporgono da un bugigattolo: vedono passare la bara del suo cadavere sorretta da corazzieri a perpendicolo sui templi intitolati al quinto dei poeti estinti.
Campane disegnate per scampanio troppo in alto perché la piazza distesa sventagli congruenza. Tra l’una e le altre supina sussistenza del riempire: basolato, scalfito resistente; panchine, senza schienale in monito d’attesa: la liturgia suona; mura, intonacate alla carlona e schive non partecipi; finestre, socchiuse per paziente veglia, verso il basso, di paludosi parrocchiani; cavi, d’alta tensione tesi al campanile, paralleli alla lancetta dei minuti.
Sono le sedici e quindici. Tutt’intorno: porticati: contraffatti, allacciati alla targhetta della società civile: Piazza Matrice; vie collaterali perdenti nella profondità; giovani, cantilenanti come ad introito, insofferenti spensierati. Non originaria questa messa di comunità non  riunisce inni o salmi. Il talare dev’esser già passato, di qui, ed io, preso da godibile ispirazione, ho dimenticato – me n’avvedo – di rivolgergli la supplica.

QUARTO CANTO: LA FORZA DELLA DEBOLEZZA CONGENITA

    Il soggetto conoscente conosce solo grazie ad una sorta di lumen directivum infusum, un barlume di luce divina che lo conduce alla ri-velazione o notitia rivelata (Bonaventura da Bagnoregio, Itinerarium mentis in Deum e Collationes).
La memoria dei padri dovrebbe essere la fonte del potere patriarcale di dire di sé ad altri. Pertanto, si potrebbe ricostruire per paradosso il dramma del patriarca secondo una geometria opposta e speculare.
Di fatto, in che cosa consiste la colpa di Mosé? Egli non è tanto audace quanto Giobbe. Mosè è colui che ha tirato su l’acqua e che dall’acqua è nato (Rank, O., Il mito della nascita dell’eroe) assurgendo a guida ancestrale del cammino di liberazione di un popolo. Con l’acqua i popoli si sono purificati e mondati dalla colpa ed ancora oggi continuano a purificarsi e mondarsi dalla colpa con l’aqua benedicta ed il crisma di consacrazione.
Mosè dunque prese il bastone che era davanti al Signore, come il Signore gli aveva ordinato. Mosè e Aronne convocarono la comunità davanti alla roccia e Mosè disse loro: “Ascoltate, o ribelli: vi faremo noi forse uscire acqua da questa roccia?”. Mosè alzò la mano, percosse la roccia con il bastone due volte e ne uscì acqua in abbondanza; ne bevvero la comunità e tutto il bestiame. (Numeri 20, 9-11)
La più accreditata tra le tesi secondo cui Mosè non ebbe accesso alla terra promessa viene indicata nell’eccesso d’ira mostrato dal patriarca durante una lite proprio per l’acqua di Meriba (Numeri 20, 10) – elemento essenziale alla dimensione simbolica ed ontogenetica dell’uomo proveniente dal Nilo –, tuttavia a me pare più affascinante e soprattutto fondata e fondante concettualmente l’ipotesi del dubbio scettico che caratterizza il rapporto tra l’uomo e Jahwèh: ragionamento, questo, senza cui l’intera struttura teoretica crollerebbe a vantaggio dei correlati di precettistica ebraica. Ecco perché preferisco accennare ad una visione negata che scrivere di accesso negato. Si pensi alla vicenda di Giobbe in parallelo! Giobbe si misura con Dio non mettendone mai in dubbio l’eterno avere ragione ed ottiene reduplicati i beni sottrattigli all’inizio delle sventure.
“Chorus mysticus: (…) L’imperfetto qui si completa, l’ineffabile è qui realtà, l’eterno femminino ci attira in alto accanto a sé” (GOETHE, J. W., Faust ).
“E per amor suo e dei suoi simili io devo compiere me stesso: per questo ora fuggo la mia felicità e mi offro a ogni infelicità, come esame e conoscenza ultima di me stesso” (NIETZSCHE, F. W., Così parlò Zarathustra)

QUINTO CANTO: UN EPISODIO

    Le pareti erano coperte di librerie dal pavimento al tetto. Il profumo di libri, profumo arcaico e sapienziale, m’irretì. Un capogiro stupefacente guidava a briglie tese l’astrazione dei miei occhi attraverso le scansie stracolme di volumi d’originale e pregiatissima rilegatura. Avrei voluto toccarli tutti, ad uno ad uno, con circospezione e passione erotica, come fossero corpi di donne sdraiate ai miei piedi. Avrei voluto aprirli, immergendovi il naso in attesa d’estasi e trascendenza. Avrei voluto rubare qua e là frammenti di scienza e tatuarli sulla mia pelle. Ma seppi stare al mio posto, limitandomi tutt’al più a dei tocchi rapidi e furtivi, mentre m’avvicinavo al mio interlocutore, il quale s’era levato in piedi e mi osservava a mani giunte sul basso ventre.
“Guardi questo libro! È una delle prime edizioni di un saggio monumentale sul Sant’Uffizio. Cosa le fa pensare? Lei sicuramente è attratto dal contenuto, dai dati storici e scientifici. Si provi, invece, a concepire idealmente le mani che lo toccano, gli occhi che lo esaminano, quello che ha spinto l’autore ad impiegare una parte della propria esistenza nello studio del fenomeno e nella successiva stesura del compendio! Anni di gioie e dolori messi al nostro servizio. Che ne pensa?”
Cominciai ad avere una visione dell’insieme circostante. Mi colpì una stupenda statua dell’arcangelo Michele con le ali spiegate, immortalato nell’atto di conficcare un’asta acuminata nell’occhio di un diavolo.
Ricordo anche un certo animismo nel mio comportamento: parlavo con gli oggetti dando ad essi una vera e propria personalità; il che mi aiutava senza forzature a scacciare le paure che avevo sempre covato in seguito alla lettura.

SESTO CANTO: UN ALTRO EPISODIO

    Il priore officiò il rito, gli stalli erano tutti occupati da monaci salmodianti col capo chino. Io rimasi seduto in prima fila, su una delle panche, come in disparte, estraneo. Perfino i miei abiti borghesi, troppo diversi da quelli degli altri, mi facevano sentire un alienato.
Le ore successive alla messa furono dominate dal torpore, talché l’intontimento non mi permise di serbare nella memoria traccia delle pratiche di purificazione. Mi si concesse, solo intorno alle nove, un po’ di riposo, peraltro caratterizzato da semplice dormiveglia sul rigidissimo lettino della mia cella e dopo il quale a fatica tentai l’ostica anamnesi.
Alzatomi, mi diressi subito in chiesa dall’esterno, senza consultare i confratelli cenobiti, desideroso di scoprirne l’architettura. Non badai al portale ed entrai. Dopo aver immerso la mano nell’acquasantiera ed essermi segnato con la croce, sollevai il capo per contemplare il modo in cui la tecnica delle maestranze gotiche si congiungeva con l’ispirazione divina. La struttura era basilicale, con tre navate a croce latina. Roteavo gli occhi senza requie ed avanzavo con prudenza ed accortezza, quasi non volessi destare i protagonisti dei mosaici incastonati nelle pareti, il cui tema era la fenomenologia dell’apocalisse. Frammenti di visioni profetiche sembravano scrutarmi da ogni parte. Uno di essi raffigurava un trono attorno al quale una ventina di seggi davano posto ad altrettanti vegliardi.
Distolsi lo sguardo ed andai a sedermi sulla prima panca, a pochi passi dal transetto. Intrecciai le mani per pregare, ma ogni tentativo di concentrazione mi era greve. Preferivo, poiché smorzava la tensione, passare da un’immagine all’altra: l’abside, l’ambone, gli archi ad ogiva; ed in ciò m’illudevo di adempiere il mio dovere esistenziale. Tipico inganno di ciascuno di noi, quest’ultimo, secondo cui ciò che ci accade intorno ha senso solo in quanto esso sia conferma ed effetto di qualcosa che già ci appartiene od abbiamo esperito e che quindi possiamo approfondire criticamente: una sorta di positivismo inconscio e di rimando, un morbo dello spirito che ci assimila ad un manipolo di codardi e pervertiti. Ne consegue, presto o tardi, una vera forma di depressione etica, preambolo della disistima. Mi rannicchiai e m’abbandonai ad un soliloquio. Domine, labia mea aperies, et os meum adnuntiabit laudem tuam: il versetto, residuo delle preghiere mattutine, echeggiava ad intervalli irregolari, tra una riflessione e l’altra, nella mia mente.

SETTIMO CANTO: DELL’ARTE E DEI SUOI TRUCCHI

    Gli eroi greci avevano un dialogo continuo ed utilissimo con gli dei, ma, si badi, non potevano cambiare il corso degli eventi secondo la propria volontà, potevano soltanto interpretarli correttamente, andando incontro al proprio destino senza ubbie.
Chi di noi, da piccolo, ma forse anche da adulto, non ha mai desiderato avere tra le mani, anche solo una volta, per un momento, una bacchetta magica con cui cambiare il corso degli eventi (…cambiare il corso degli eventi vuol dire interpretarli a proprio modo e nulla di più…)?
“Non agendo, non esiste niente che non si faccia” scrive Lao Tzu. E ancora: “Il Santo fa ciò che deve fare senza azioni, comunica senza parole”. (Citato ne Il tao della fisica, Capra F.)
“Costui si muove, Costui non si muove; Costui è lontano, Costui è vicino; Costui è all’interno di questo Tutto, Costui è anche all’sterno di questo Tutto.” (Isa-upanisad – Citato ne Il tao della fisica, Capra F.)
Un monaco dice a Joshua: “Sono appena entrato a far parte del monastero. Ti prego d’istruirmi!”
Joshua gli domanda: “Hai mangiato la tua zuppa di riso?”
“L’ho mangiata.” risponde il monaco.
“Allora faresti meglio a lavare la tua ciotola!” conclude il maestro. (Citato ne Il tao della fisica, Capra F.)

SCARICA I FRAMMENTI SCELTI E COMMENTATI DALL’AUTORE

Questo è il mio sangue – Frammenti scelti

Add Comment Register



Lascia un Commento

*
To prove that you're not a bot, enter this code
Anti-Spam Image