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R I N A L D O A D R I A N I
un cantore a braccio
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In memoria di un cantore a braccio, mai conosciuto, eppure conosciuto,
di cui non avevo i tratti somatici, ma ho colto il timbro dell’anima,
più intenso e duraturo di qualunque fisionomia.
È da poco uscito, a cura di Serafino Adriani, figlio di Rinaldo, il libro
L’ottava rima di Rinaldo Adriani. Gare poetiche e “contrasti”,
per il quale ho scritto la prefazione e del quale, dunque, ben conosco i contenuti.
Pubblico di seguito il mio scritto introduttivo e qualche stralcio dell’opera.
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PREFAZIONE
Celeste è questa
corrispondenza d’amorosi sensi,
celeste dote è negli umani; e spesso
per lei si vive con l’amico estinto
e l’estinto con noi…
(Ugo Foscolo)
Se lo spazio dell’illusione foscoliana del sopravvivere nella memoria dei propri cari attraverso il culto dei morti si estende a qualunque rilevante impronta del passaggio di un uomo sulla terra, la “celeste corrispondenza d’amorosi sensi” può trovare palpiti anche più intensi di quelli che suscita un luogo di sepoltura. E se, come pare, il linguaggio digitale, ovvero la parola, orale o scritta, è capace di esprimere in superficie i contenuti profondi della psiche, quanto un uomo lascia di sé attraverso quello che pensa e poi dice, nella creativa distorsione della speculazione o dell’arte, in tutte le manifestazioni possibili, è la sua parte sostanziale, non di certo una pura forma di rivestimento.
In questo abito-essenza, Serafino coglie la sopravvivenza del padre Rinaldo, della sua parte più autentica, più nobile e schietta, e, rendendo pubblico il sentimento di gratitudine nei confronti di chi lo generò alla vita e ne coltivò il germoglio, ne perpetua la presenza, attraverso un’operazione diligente di recupero e di riordinamento delle parole paterne, estemporaneamente composte in mille occasioni, e però maturate, coltivate nell’anima secondo una peculiare visione del mondo e tramite codici e moduli espressivi che la traducono con chiarezza. Così improvvisa un jazzista, dopo un lungo e paziente lavoro di assimilazione.
Rinaldo Adriani fu artista del “canto a braccio”, un’arte fiorita in ambiente bucolico, da tradizioni pastorali e contadine, che trovò anima in molte aree della Penisola e territorio fertile nell’Alta Valle del Velino, ma che vanta lontani precedenti – riferiti da Livio, Catullo, Virgilio, Orazio -, nei “carmi fescennini” (la forma più antica di arte drammatica presso i Romani). Orazio, in particolare, scrive:
Agricolae prisci, fortes paruoque beati, / condita post frumenta leuantes tempore festo / corpus et ipsum animum spe finis dura ferentem, / cum sociis operum pueris et coniuge fida / Tellurem porco, Siluanum lacte piabant, / floribus et uino Genium memorem breuis aeui. / Fescennina per hunc inuenta licentia morem / uersibus alternis opprobria rustica fudit, / libertasque recurrentis accepta per annos / lusit amabiliter, donec iam saeuos apertam / in rabiem coepit uerti iocus et per honestas / ire domos impune minax… (Nell’antichità, forti e felici di niente, i contadini, dopo la raccolta del frumento, riposavano nei giorni di festa il corpo e con questo lo spirito, che nella speranza dell’esito migliore l’aveva sostenuto. Con i compagni di lavoro, con i figli e la sposa fedele offrivano in sacrificio alla Terra il porco, a Silvano il latte e al Nume tutelare, che ci rammenta quanto sia breve la vita, il vino e i fiori. Da queste usanze ebbero origine i licenziosi fescennini, che verso contro verso lanciavano ingiurie sul mondo contadino, e trovando fortuna, di anno in anno la loro libertà divertì col suo garbo, finché lo scherzo, svelando malizia, prese a mutarsi in rabbia velenosa e invase impunemente minaccioso la casa di gente onorata; Epistulae, II, I, 139-150).
In epoche più recenti, come si diceva, soprattutto i pastori, nelle lunghe ore di assistenza alle loro greggi, per fortuna non disponendo ancora dei perversi schermi elettronici, leggevano e imparavano a memoria i passi dei grandi poemi classici in ottave, L’Orlando furioso, La Gerusalemme Liberata, il Morgante, non trascurando Dante ed Omero, assuefacendo così il gusto, la mente e l’orecchio, alle cadenze dell’endecasillabo rimato e soprattutto della struttura strofica della poesia narrativa, composta di sei endecasillabi a rime alternate e di un distico finale a rima baciata, che quasi sempre ne costituisce un’incisiva chiusa. Tale apprendimento trovava sbocco quando, la sera, i pastori si incontravano nelle osterie per inebriare la stanchezza e si divertivano ad imitare i modi e le cadenze delle loro letture, magari al suono delle pive o di un organetto, dando forma ironica, se non sarcastica, alle quotidiane vicende esistenziali, fatte di contatti con la natura, di rapporti di amicizia e di relazioni d’amore, o a temi di carattere sociale, politico, religioso, storico. Ne nacquero vere e proprie “contese”, tenzoni poetiche, “contrasti” (padre-figlio, quiete tempesta, mare-cielo, suocera-nuora…), “verso contro verso”, con provocazioni e risposte, sfide di abilità metrica e lessicale, di arguzia, in cui tutti davano prova della loro valentìa, del livello di assorbimento e di elaborazione dei modelli “studiati”, letti, riletti, e sovente memorizzati. Le sfide furono regolate, col tempo, da convenute norme, come quella di intonare il canto a cappella (senza cioè accompagnamento strumentale) su una precisa linea melodica, dalle sfumature diverse nelle diverse zone delle varie regioni, e quella di iniziare la risposta “allacciando” il primo endecasillabo, e quindi il terzo ed il quinto della strofa, a quello finale dell’altro “Bernascante” [1], verso non di rado costruito con una terminazione fonetica che mettesse in difficoltà l’avversario, costretto ad echeggiarne la rima in un’ottava “incatenata”. I poeti a braccio si esibivano anche in altre circostanze, sulle aie, nelle feste, o nel canto delle serenate, soprattutto in occasione dei matrimoni, facendo uso di moduli metrici più snelli, come la terzina e la quartina, più adatte ad essere accompagnate da strumenti musicali.
Oggi, nonostante il “genocidio culturale” che “il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa” [2] ha commesso nei confronti della cultura contadina, il canto a braccio sopravvive, attraverso qualche epigono, in alcune zone dell’Appennino.
La difficoltà del poetare a braccio non è irrilevante. Nel non ampio respiro del canto e nelle brevi pause di attesa, la mente deve elaborare un pensiero che non sia banale, da strutturare, per di più, in rigida cadenza strofica e in rima, complicata dall’obbligo dell’“allaccio” e, come se non bastasse, nella tensione che comporta la presenza di una giuria e del pubblico all’ascolto. Chi come me si sia cimentato in terzine dantesche, ottave e sonetti innumerevoli, lo ha fatto tranquillamente raccolto in una stanza, trattando un soggetto liberamente scelto e sentito, avendo a disposizione tutto il tempo per meditare, per ripensare le idee, per vagliare il lessico e infine per limare i versi. Il canto a braccio deve svolgere temi proposti da altri, condizionato dal pensiero del cantore che interloquisce, da arricchire o da contestare; deve fluire immediato, senza controlli che non siano quelli della sensibilità, della fantasia, dell’esercizio, della prontezza, del bagaglio di parole, affidato musicalmente al ritmo interiore, senza metronomi meccanici o elettronici, senza opportunità di correzioni. Inevitabili dunque talune forzature, troncamenti che la grammatica non ammette (come alla primaver la rondinella, del Fornari, per cui ti canto staser senza trucco, di Berardino Perilli, forse l’effetto serr che ci distrugge, di Stefano Prati, o l’immagine suprem della salute di Virginio Di Carmine, oppure il canta questa natur cosa canora, dello stesso Adriani) o poco naturali dialefi, o cacofonici incontri di suoni. Inevitabile pure la presenza di qualche “endecasillabo mancato”… qualche verso, cioè, che endecasillabo non è: come il Lussemburghese scalatore, oppure ritornando rinnovi la specie, di Virginio Di Carmine, chiaramente decasillabo non canonico il primo, canonico il secondo. Manca ugualmente una sillaba al verso quella sagra, sì, del lattarino, di Luigi Bernardi, così come a quello di Pompilio Tagliani con la dolce rima genuflessa. Ne mancano due ad hai raccolto una messe d’oro, di Virginio Di Carmine, a meno che non si voglia scandire ha-i-rac-col-to-u-na-mes-se-d’o-ro. Il verso di Mario Gloriani, anche tu falegname con lo tuo stucco, è invece eccedente: sarebbe bastato cantare “col tuo stucco” per ricondurlo ad undici sillabe. Berardino Perilli arriva perfino alle tredici sillabe (il chirurgo verrà che questa è la sua arte). L’incalzare del tempo non permette, insomma, al cantore di riflettere troppo sulla forma e sulla norma: a volte si dice quello che viene, con licenze temerarie che magari, sullo scrittoio, sarebbero state evitate. Ad esempio il verso la passione per gli uomini ed i Dei, che chiude un’ottava del Rinaldi, avrebbe potuto correttamente suonare, senza problemi metrici, la passione per gli uomini e gli Dei; così come il sovrabbondante io ero poeta al tuo sovran balcone avrebbe potuto fare a meno del pronome personale, che costringe alla problematica sinalefe ioè-ro, per ridurre a bisillabo il quadrisillabico i-o-e-ro, ed esser più agevolmente cantato ero poeta al tuo sovran balcone. Cosa ch’egualmente si verifica nel verso i sentimenti miei eran vilipesi, dove mie-i-e-ran dev’essere ridotto faticosamente a mieie-ran. Gli esempi riportati, che non esauriscono la gamma riscontrabile, non intendono porre in cattiva luce i cantori, né tanto meno denigrarli, ma vogliono solo evidenziare le difficoltà che essi devono ogni volta affrontare, e sottolineare l’ammirazione per un’abilità che probabilmente molti grandi poeti non hanno posseduto.
A questo punto sembra opportuna un’analisi dei contenuti e delle forme dell’arte di Rinaldo Adriani, autore di un canto certamente acceso da una sincera passione (noi che di versi andiamo sempre a caccia), ma, per quanto concede l’urgenza dell’estemporaneità, sorvegliato, per non far che si estingua il bel linguaggio / che fu degli avi, ai posteri retaggio, per l’esigenza dunque di conservare e tramandare la migliore tradizione. Qualunque tema egli tratti, non manca mai uno spunto di musica e di sentimento che lo distingue e che ne dichiara l’indole esistenziale di eterno guerriero disarmato, ma combattivo, pronto alla battaglia senza spada e lancia, “spinto alla vita dal furore” [3], per quanto fondamentalmente votata alla concordia: ma della pace, sappi, son l’araldo; / soltanto se poi in guerra mi si chiama / delle battaglie ritesso ogni trama. E i temi, per quanto imposti, sono svolti sempre in modo sentito, còlti come emblemi dell’universale esperienza umana e soggettivamente modellati, in uno stile quasi costantemente fluido e sapiente, che non di rado eleva il tono del cantar comune. Non a torto, in occasione delle nozze della figlia Marilena, Berardino Perilli gli riconosce qualità singolari, di pensiero e di veste: vedo che hai misurato col tuo metro / e a te non manca mai la geometria /… / l’arte gentile, la tua fantasia. Del resto nel dopogara dell’agosto 1992 Alberto Fornari gli esprime un apprezzamento ancora più lusinghiero: ti vedevo da me cotanto avanti / mentre di altri cantor ce ne son tanti.
Ma si diceva dei temi della sua poesia.
La nostalgia del suolo natìo, quel che dal tempo antico si dipana, avvertita soprattutto quando torna propizio il tempo e la stagione, e l’emigrante sente “rigorgogliare” nel cuor vecchia canzone e il desiderio di ritorno in patria.
Il mito di una femminilità sana ed agreste, dalla bellezza mai profana, che si può ammirare con robuste braccia / spingere i buoi con la pacata faccia.
La sensibilità per i suoni e le visioni della natura: il dolce mormorar dell’onde chiare; il profumo della terra; il muggito degli armenti, il nitrito dei cavalli (ancor per monti e per amene valli / sento tori muggir, nitrir cavalli, con elegante chiasmo); l’oro del grano che risplende magari nei bei capelli di una donna bionda, che sembrano di maggio bionde messi; i ricami floreali della primavera (la dolce flora natura ricama).
I piaceri della vita agreste: ma se lo gusti poi un agnello arrosto / ti bolle il sangue come a ottobre il mosto.
La vita modesta e industriosa degli avi, umili nella loro ignoranza, dignitosi ed alti nel senso del dovere, nell’etica dedizione alla fatica del vivere, perfino costretta a “mangiarlo il pane amaro”: rivedo il nonno accanto al focolare / triste e pensoso che era analfabeta, / pensava solamente a lavorare / e come il baco filava la seta. Il valore della vecchiaia, non solo nello spessore dell’esperienza vissuta e nell’incarnazione di una lunga battaglia sostenuta, che “si ritaglia” stima ed affetto, ma perfino come voce e “specchio” di una bellezza tenera e lirica: se la faccia di un vecchio qui la vedi / rivedi pur lo specchio dei poeti.
Il senso ammirato e devoto dell’amicizia, che si esprime nella commemorazione, con un profondo, ma virile cordoglio: nessun tempo mai, nessun oblio / cancellerà l’immagine solenne del perduto amico e competitore Sciarra, per il quale perfino Iddio / le lacrime dagli occhi non contenne / e sulla torre del suo Ministero / mise in segno di lutto un drappo nero; o che trova occasione d’incoraggiare un amico-avversario in difficoltà [4]. Amicizia che tuttavia viene concessa soltanto a chi ne è ritenuto degno, in forza delle sue qualità umane e morali: perché le genti le passo a setaccio / e solo a quelle buone poi mi abbraccio.
L’umiltà e la devozione nell’ascolto del paterno consiglio: quando l’avverbio tuo mi scende al cuore / io tutto quanto allora me lo piglio; la forza della paterna protezione da cui scaturiscono fede, speranza (e una speranza aulente mi innamora) e sicurezza (ma chi col senno parla, e con il cuore, / lo ritrae dai perigli della vita); la riconoscenza filiale (cammina babbo mio, che dietro il figlio / quando tu stanco sei lui ti ristora) nella rivendicazione del vigore giovanile, ribadita dal distico però per ogni vento ed ogni corsa / ci vuole solamente la mia forza, e della possibilità della giovane generazione di porre rimedio ai danni prodotti dagli errori delle generazioni più vecchie: per riparare quei vetusti danni / ci vuol sempre la forza dei vent’anni.
Non manca il tema della volubilità della sorte: ma i destini lo sai, sono meschini… la persona tu sai tanto si innalza / poi cade forte, tanto più è prevalsa.
Non può mancare l’amore che ti inebria tutto il sangue in ogni arteria, amore che sgorga dall’incanto della bellezza femminile che nel vasto mare sembra un’onda ed inebria veramente il cuore e fa beato colui che lo racconta! Bellezza di una donna quasi dono divino elargito all’uomo per alleviare gli affanni della vita: par che Dio su dal cielo l’avvalora / con lei addolcisci la tua vita amara, ma anche còlta nella più carnale prospettiva: le more o bionde sono tutte “bone”… E, per conciliare le due facce della medaglia, amore come genuino romanticismo, magari al ricordo delle serenate di gioventù:
Quanti versi e canzoni appassionate
fatte sotto al trapunto firmamento
alle belle fanciulle innamorate
cantate con il cuor, col sentimento.
Vedevi le verande illuminate
segno di un amoroso avvenimento,
e al suon di ciaramelle e belle frasi
a narrar dell’amore i dolci casi.
Anche l’amore per la propria terra è motivo non secondario. Non solo amore per le bellezze naturali (Io illustro questo Abruzzo sorridente, / stato davver che sembra un’illusione, / ma sappi, quel che far non posso io, / dal tempo antico te l’ha detto Iddio), ma per il carattere e le doti, per i sentimenti della gente: qui, quando si offre, mio dolce cantore, /…/ devi sapere che si offre col cuore, / con quella purità di sentimenti; solo la nobiltà e la cortesia / son sempre segni della terra mia; ancor più per i sentimenti personali che la terra natale gli desta, in lui alimentando ed esaltando l’èmpito della creatività: soprattutto se vengo a Campotosto / ho troppo di cantare il cuor disposto. Amore che ritempra, che restituisce nuovo vigore all’anima (quando che la rivedo questa terra / l’animo di Rinaldo non si atterra). Amore viscerale, che si estende alle tradizioni del suo popolo (gli usi e i costumi della gente nostra).
Scontato, ovviamente, l’amore per il “canto”, che è il moto stesso della vita dei cantori, di Rinaldo in particolare: ognun delle sue rime fa un vascello, ciascun poeta trova nella sua poesia il legno veleggiante di ogni rotta esistenziale. Anche quando può sembrare inaridirsi, l’anima trova sempre la vena da cui sgorga nuova linfa: io me ne vado, sai, come va un fiume, / ch’a volte manca l’acqua e par che muore / trova una fonte e cresce di volume.
Quando il contesto lo permette, l’Adriani non si esime dal manifestare la saggezza acquisita attraverso l’esperienza, formulando massime di vita, che suggeriscono magari la gradualità nel cammino verso gli obiettivi (chi sale di repente si fa male / qualunque pianta resta scolorita), o la necessità di adeguare gli obiettivi stessi alle proprie forze, allineando il pensiero all’azione (quando il braccio alla mente si equivale / allor la strada puoi fare più ardita); o avvertono, secondo una classica sentenza, che in tutte le cose è necessaria la giusta misura (non è il liquore che ci fa la guerra / solamente ci vuole la misura); o considerano sciocchi gli atteggiamenti spavaldi di chi nella vita ruggisce e della vita si vanta, perché poi chiunque deve fare i conti con la giustizia divina (chi è umile nel mondo e c’è chi rugge / e par che della vita faccia un vanto. / Ma alla legge di Dio nessuno sfugge); o riflettono sulla ciclicità dei fatti esistenziali, sulla loro fecondità: ogni atto è come un seme e tanti semi producono un raccolto (viene il tramonto ritorna l’aurora / la vita è tutta una seminagione); o invitano ad eludere, quando possibile, ogni cosa sgradevole, accogliendo invece a braccia aperte ogni cosa gradita:
……
ogni casa tu sai che ha la sua porta:
se tu vedi la cosa che è sgradita
lasciala fuori e nulla te ne importa.
Prendi la cosa bella, preferita,
solo di quella fattene una scorta
e poi che il mondo resti scuro e tetro,
quello che è scuro tu lascialo indietro.
I temi cui il bernascante deve sottoporsi, sono i più vari, sicché quanto più ricche sono esperienza intelligenza, sensibilità, tanto più prontamente e coerentemente egli può esprimere il suo pensiero, indipendentemente dal binario obbligato. Così anche nelle problematiche politiche e sociali Rinaldo Adriani porge il suo contributo, mai ordinario, e può osservare che un operaio che si attenga nel suo ruolo alle regole del mercato (per la verità non sempre eque), che non si scagli quindi contro il datore di lavoro, come fa Stefano Prati nel contrasto con l’Adriani (tu ti dimostri come una carogna / stasera scopri qui la tua vergogna), vive meglio la sua condizione, può portare a casa il suo salario / senza far del lavoro il suo calvario, consapevole dell’importanza della funzione svolta dall’imprenditore, che, per quanto criticabile nella sua gestione, tuttavia offre ed organizza l’occupazione. Per quanto riguarda lo Stato, il cantore gli rimprovera l’assenza, o l’evanescenza, che non ripaga mai questi sudori, il duro impegno, ad esempio, dei contadini, che non rare volte sono costretti ad emigrare, in vista di prospettive economiche migliori, gravide, spesso, di sforzi e rischi ancora maggiori (lascio la valle, lascio la scogliera / per andare laggiù in una miniera), portando nel cuore la perenne, struggente nostalgia della terra lasciata, dove perfino il sole mi sembrò straniero (ma mi risogno questo firmamento; …perché la Patria sua il suo cuore chiama. / Rigorgoglia nel cuor vecchia canzone / quel che dal tempo antico si dipana). Del resto, soprattutto la subordinazione dei mezzadri al proprio padrone si rivela insostenibil-mente gravosa: io sto alle stalle e lui sta nelle stelle / vuol specular sulla mia dura pelle. Circostanze e sentimenti che non possono avere che uno sbocco ideologico: viva l’insegna di falce e martello!
Degne di nota le enunciazioni di poetica, come nel caso in cui Adriani dichiara che la poesia è nel cuore, e sorge sempre qual rosa fiorita, nella sostanza del poetare, che è la vita, in un ambiente campestre dove il poeta-contadino si incastona a un’opera infinita e canta il senso del cantar che in sé ragiona, oggetto espresso in un endecasillabo che, più che zampillare dall’Elicona, sembra sfuggito ad una terzina dantesca… In altro passo Rinaldo allude alla mancanza d’ispirazione, quando canta la bocca sol, ma il cuore tace / che ha qualche cosa dentro alla meninge, tanto da inibire il più esperto bernascante, che tuttavia non per questo smarrisce il suo talento. In altro ancora egli fa riferimento alla difficoltà della ricerca poetica, specialmente in condizioni di spirito poco idonee: e noi cerchiamo per ogni dirupo / dove ci nasce il fior, dove l’ortica, / quando l’animo nostro si fa cupo / riaffiora il sentimento con fatica. Altrove precisa il momento in cui lo slancio interiore è più propenso al canto, ovvero quando ogni sentimento si raduna / ed il frutto è maturo alla stagione. Non viene trascurato il potere terapeutico del canto a braccio, capace di far nascere il sorriso, come un raggio in un cielo luttuoso: ma quanti sentimenti son costrutti, / qui dipaniamo tutta una matassa, / il sorriso ritorna anche tra i lutti / e sol l’incompetente guarda e passa, dove l’ignorante che “guarda e passa” sembra soprattutto un essere insensibile, incapace di porgere l’anima alle fioriture della poesia. Poesia che è lavoro di cesello sulla malleabilità dell’argento e dell’oro, “lavoro fino” che segue l’osservazione attenta e rigorosa della realtà: io le cose le osservo, miro e squadro / le cesello davver d’argento e d’oro, e di “metallo diamantino” che “riscioglie a un fiume di parole”. Poesia come dono naturale, che sgorga per pura gioia interiore, scevra di obiettivi venali: si risente il metallo diamantino / e mi riscioglie a un fiume di parole. / Cammina l’acqua mia come il Trontino / è la natura che codesto vuole / e non bramo, cantando, i miei guadagni. Poesia che, mentre palpita, avverte il timore di smarrirsi, di andare perduta per sempre: quando il bel canto questo verso perde / allor la pianta più non si rinverde.
Infine, quasi disseppellendo un pensiero lontano secoli, Rinaldo Adriani riecheggia la voce di Dante che risponde a Bonagiunta [5]:
ma non ci serve battere la mano
parla da sé questa lingua loquace,
l’animo stesso si fa promotore
parla la lingua ma ti detta il cuore.
Per quanto riguarda lo stile qualcosa si è già detto. Si deve però aggiungere che l’Adriani denota dimestichezza con la tradizione: il suo bagaglio di cadenze, di suoni, di figure, di riferimenti, risente in modo chiaro di letture numerose ed attente. Il lessico è appropriato, ricco, vario, né si sottrae al conio d’improvvisi neologismi quando, nell’incalzare del dire, la necessità della rima e la fedeltà al pensiero lo richiedano (se ho interpretata bene la poesia / come la esclami, come la armoneggi… per rimare con fraseggi e fregi, anche se il verbo torna poi all’inizio di un altro verso, in un’altra ottava). Non si riscontrano topoi di tipo omerico (l’aurora ch’ha dita di rose), se non un ricorrente e così sia, che sa di religiosa tradizione contadina, con sfumatura, talvolta, di sacro impegno o di fiduciosa aspettativa, più che di devota rassegnazione; inoltre, periodico è il riferimento al rapporto fra la bocca che dice e il cuore che vibra o tace, sia pure al di fuori di una replicata formula codificata. Frequente l’uso della non ammessa locuzione congiuntiva subordinante temporale “quando che”, probabilmente d’importazione dialettale, in luogo della congiunzione “quando”, dal momento che essa ricorre anche negli altri cantori. Pure la preferenza che va all’indicativo, a danno del congiuntivo, anche quando metricamente questo sarebbe praticabile (lui quando viene par che dà il verdetto, avrebbe potuto benissimo suonare lui quando viene par che dia il verdetto), credo sia da ricollegarsi alla frequentazione del dialetto. Non è rilevante l’uso di arcaismi, nonostante se ne riscontri qualche presenza (L’Aquila stessa fé un’Ave Maria, dove “fé” in luogo di fece è più obsoleto del parimenti desueto “fé” in luogo di fede).
Non molto frequente è il registro comico-ironico, che pure trova qualche spunto felice. Penso al tema “donna bionda-donna mora”, quando per sostenere le ragioni del superiore fascino della donna bionda, Rinaldo Adriani chiude una sua ottava con uno spunto tanto inatteso, quanto felice ed arguto: dell’altra quando vedi il crine nero / sembra un’ombra che vien dal cimitero. Anche “l’industriale” che si rivolge al “sindacalista” usa toni ironici: io sono la ricchezza nazionale / e tu la brutta copia e triste vista.
Per quanto concerne la metrica, l’Adriani fa generalmente uso dei tre endecasillabi canonici, 6-10, 4-8-10, 4-7-10 [6], con netta prevalenza, com’è classica consuetudine, dei primi due. Rara la presenza dell’enjambement, dal controllo difficile, ritengo, in una versificazione estemporanea. Da rilevare il non infrequente impiego, nel distico che chiude l’ottava, di una forma di rima imperfetta, ovvero dell’assonanza: ad esempio incide che rima con vite, prende con dente, “parole terminali che contengono le stesse vocali, a cominciare da quella accentata, mentre le consonanti sono diverse, ma per lo più di suono simile” come definisce il Devoto; negli esempi d e t sono due dentali.
Per concludere, non ci si può astenere dall’apprezzamento, per nulla convenzionale, che si unisce di certo alla gratitudine di chiunque ami le più affascinanti manifestazioni dell’intelligenza e della sensibilità umane, per l’iniziativa meritevole del figlio di Rinaldo Adriani, Serafino, che deve aver avvertito, più o meno consapevolmente, di là dall’esigenza di dare perennità alla memoria del padre, il rischio non remoto che un tratto così luminoso della cultura popolare, come quello del canto a braccio, potesse perdere un’eco rilevante del suo secolare arco di vita – se non le sue stesse vestigia – come paventavano in un contrasto proprio Rinaldo e l’amico “competitore” Pietro De Acutis:
Rinaldo
……
Però tutto da noi oggi dipende:
c’è poca carne e ci son tanti ossi
e forse il cane buono è chi li prende,
forse chi ha più mascelle e forte il dente.
Pietro
I tempi sono magri veramente
e non c’è più chi lo professa il canto.
È quasi secca l’acqua alla sorgente
bagnata da una lacrima di pianto;
ma finché vive questa nostra mente,
tu ti riunisci ancor, di tanto in tanto,
per ritrovarla questa vecchia usanza
e finché ci sta vita c’è speranza.
A questo accorato timore, a questa speranza, Serafino ha prestato la fragilità e la durevolezza della carta, perché il “canto” si conservi, ancora una volta foscolianamente, almeno finché il sole / risplenderà su le sciagure umane.
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Non ho avuto il piacere di conoscere Rinaldo Adriani, se non indirettamente, attraverso tre ottave ch’egli mi fece recapitare a Roma, per mano di suo figlio Serafino, il 31 Gennaio 2013, in occasione di un convegno all’Università degli Studi La Sapienza, dopo aver letto per intero il mio poema epico-drammatico Mythos (Marsilio), di circa diecimila versi in terzine dantesche, non molto tempo prima di andarsene. Ricordo la cosa con gratitudine e non posso sottrarmi al dovere di riportare quei versi, come mi furono fatti pervenire.
Se Mythos vuole dir mitologia
e del mondo latino e il mondo greco
seme fecondo di bella poesia
di cui sonante ancor si sente l’eco
tu saggia Eràto e tu dolce Talìa
se or troppo disturbo non vi arreco
suggeritemi versi adatti al caso
per risalir le vette del Parnaso.
Risentire il trasporto ed il travaso
che sente il Vate nei suoi bei pensieri
mirar la volta dall’orto all’occaso
come han fatto il Petrarca e l’Alighieri
e poi verso di te i miei versi baso
di cui leggo e rileggo volentieri
e nei riflessi miei contemplativi
ne deduco giudizi positivi.
Nei caldi giorni di meriggi estivi
quando rivivo nell’Abruzzo nostro
tra i verdi colli e i profumati clivi
canto e descrivo quell’amato chiostro
balzano avanti i bei sensi istintivi
non molto adatti a pergamene e inchiostro
ma versi estemporanei ed improvvisi
tra gli olezzi di gigli e di narcisi.
Al Professor Amato Maria Bernabei con stima
Rinaldo Adriani
Roma, 31 Gennaio 2013
Nomen omen
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Di Torquato, Rinaldo, nell’ottava
sacra, e furiosa dell’Ariosto, visse:
e Mascioni sentì come suonava
il magistrale verso, e lo ridisse
nel cuore dell’Abruzzo che cantava.
E perché quella voce non morisse,
l’amor filiale, che devoto stima,
scrive e salva, sul foglio, quella rima.
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ALCUNE OTTAVE DI RINALDO ADRIANI
(in corso di preparazione)
[1] Il Bernascante è un contadino avvezzo a partecipare alle gare di poesia in ottava rima che si tengono nelle fiere dei paesi, improntata a quel tono salace, fustigatore e ridanciano che si fa discendere appunto dal poeta cinquecentesco Francesco Berni (Marco Fagioli, L’immagine del contadino nella scultura toscana del Novecento).
[2] (Pasolini, dal film in quattro episodi RO.GO.PA.G , La ricotta, del 1963).
[3] (cfr. Contrasto con Virginio di Carmine Padre e Figlio).
[4] Cfr. Gerusalemme Liberata (cantori Rinaldo e Virginio).
[5] E io a lui: “I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando“ (Dante Alighieri, Purgatorio, XXIV, 52-54).
[6] I numeri indicano le sillabe metricamente accentate: ad esempio l’ultimo verso citato parla la lingua ma ti detta il cuore è un 4-8-10, dal momento che l’accento cade sulla quarta (lin), ottava (det) decima (cuo) sillaba dell’endecasillabo.
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