FILIPPO CANCI
KATÀ TEN TOU KHRÒNOU TÀXIN
1968-2000
* * * * *
NEL RICORDO DI UNO STUDIOSO ASSIDUO E DI UNA MENTE FERVIDA
È in agguato la falce
quando al vento
gioiscono le spighe
flessibili danzando,
quando l’oro s’incurva e poi ritorna,
e il campo sterminato
è un polmone di terra che respira,
mentre sui bordi i salici da ceste
cerchiano il mare. [1]
Tu, che tanto sapesti e forse poco,
il taglio della lama ed il reclino [2]
azzardasti precoce, trascurando
la mano e l’assassino. [3]
Non ti désti nemmeno la memoria
che sopravvive al tempo per il tempo
che l’uomo resta: [4]
più non saresti, se non fosse questa
pietà del foglio
e il segno che rimane. [5]
Amato Maria Bernabei, 24 Gennaio 2021
[1] Il mare di messi.
[2] La morte (dall’espressione biblica del reclinare il capo: «reclinato il capo, spirò», Gv. 19,30).
[3] La mano della morte assassina.
[4] Rifuggisti dal pubblicare i tuoi scritti, che avrebbero lasciato traccia di te almeno nella vita dell’umanità
[5] Nessuno più ti ricorderebbe, se non fosse per questo sentimento di pietà che affida al foglio ed alle parole la tua memoria. La lirica è nel ricordo di Filippo Canci, compagno d’infanzia, stimatissimo professore, studioso assiduo e mente fervida.
* * * * *
La poesia di Filippo Canci è sapienza del cuore e filosofia di vita che ruotano intorno a galassie conosciute. Assumono queste ora il volto dei propri cari, quando la coscienza è vigile, ora quello di qualche creatura solare, mitica nostalgia di giovinezza perduta dietro impegno e speranze. Lo stile si è affinato nel tendere alla perfezione, mentre veglia la ricerca di qualche termine desueto o creato volutamente, per dare maggiore purezza alla immagine, a quella fantasia che Benedetto Croce definiva intuizione lirica. I componimenti non conoscono la brevità, piuttosto si espandono in digressioni che sembrano voler raccontare ciò che a voce non hanno potuto esprimere. Con tenacia di scalatore di vette, il poeta esplora a lungo continenti, paesi, fatti, persone e cose per trattenerle e farle sue per sempre e di rimando è un ardore titanico ciò che ci comunica, dolcemente velato di malinconia. L’attenzione sempre vigile verso il mondo, reso dall’uomo più ricco di sconforto e desiderio matura nei versi e si avverte di più nelle pause che sono un invito a riflettere e a non eccedere, perché tutto potrebbe disfarsi nel nulla. A prevalere resta sempre l’oscura forza della vita, ostinata ad impadronirsi dell’Universo, ma per la quale resta sublime mistero la presenza della morte.
Anna Filomena Santone
Roma, Ottobre 2007
* * * * * * *
Aforismo I
Il mondo è intelligibile.
La vita è inesprimibile.
L’Essere è.
Aforismo II
La ragione per guidare.
La passione per agire.
L’illusione per vivere.
Aforismo III
Dosare i sentimenti le passioni
le pausate intermittenze del cuore.
Unire nello specchio del presente
i segmenti e i frammenti del vissuto.
Sentire nel trascorrere del tempo
il respiro incessante della vita.
Improvviso mozartiano
In cadenza di clavi
cembalo fugge la vita.
Ti volti: sono acute
note di memoria
quelle che stampano
sulla tua tastiera
l’inconoscibile trama
mozartiana.
Improvviso schubertiano
Lontani andremo. Ci disperderemo
nello spazio e nel tempo, nelle plaghe
dove il silenzio è musica.
Diventeremo note. Diverremo
per sempre voci dell’arcano.
Intenderemo il sovrumano arpeggio
delle anime.
Sarà nostro registro
l’infinito.
E forse allora questa troppo muta
si scioglierà in improvviso canto
nell’accordo di quel mare.
Canteranno gli atomi di luce
in quell’ora dorata.
Finalmente.
Il Coro dei Caduti
Il mio colore fu solo di guerra
la mia canzone sempre disperata
la mia speranza assunta in sacrificio.
Fu la mia vita breve assidua corte
alla morte, come vedi, o fratello.
Per voi viventi resto sconosciuto
soltanto nelle braccia immense di Dio
riconosciuto.
La Grande Muraglia
Non può esservi impero senza terra.
Nel Paese di Mezzo ancora oggi
annettono e conservano lo spazio
fra la steppa ed il mare,
lo difendono tutti col baluardo
della Grande Muraglia
la frontiera fra la terra abitata
ed il deserto dei nomadi luogo
del nulla.
Non è facile cintare
uno spazio cosi vasto che vuole
una guardia fissa e costante di solida
pietra cementata
armata a perimetrare la gente
della Stirpe del Drago.
L’ossequio della Legge esige il Limes
contro i cavalli dei ribelli Hsiung Nu
predoni della steppa senza norma
d’equità senz’alibi né futuro
nella bruma gelida infeconda del
Settentrione. Ciò che non corrisponde
al nome Ch’in è oggetto di divieto
dell’Imperatore, vietata pure
la reggia del potere
ai profani della gleba agli esclusi
da qualunque commercio col divino.
Come nasce la testa alla corona
si recinge la terra di muraglia
nell’Impero immortale dei Celesti.
Passano gli anni passano i potenti
si perpetuano le generazioni.
Non può darsi potere senza muro.
L’alba del samurai
L’alba. Sol Levante, bacia il samurai.
Sempre egli ti attende, fedele sempre
al suo appuntamento con la morte.
Saluta elmo sciabola corazza
il suo consueto arredo di prodezza.
Da quando fu al servizio del Tenno
come i suoi padri consacrò la vita
alla morte, fu contro l’illusione
di una vita privata del bushido [1].
Il destino di un uomo è il suo destino.
Hara del samurai è nella sciabola.
Dare e accettare la morte il karma.
Nel Paese degli Dei è divino
chi riesce a vivere sul limitare
della morte, l’unico patrimonio
del guerriero. E dell’uomo.
Sulla via di Osaka si brandiscono
gli stendardi, rullano i tamburi,
la sciabola scintilla.
I tai fun della guerra sono pronti
invocano battaglia.
Invoca il nome dell’Imperatore,
o samurai, guarda fisso nel sole
concentra le tue forze
e vai alla battaglia sorridendo.
Alla geisha hai legato il tuo pensiero.
Ora affida la tua anima al falco
alto levato. È sera.
La Via della Seta
Solo qui lungo questa via antica
il mondo si conobbe nella seta
fu questa la via regia
che unì mercanti e popoli diversi.
L’Oriente e l’Occidente
si trovarono fusi nei serragli
presso i mercati delle carovane
nella vasta babele delle lingue
nella confusione di merci e odori
nell’abbondanza dei beni scambiati
a prezzo di ardimento.
Al compimento del lungo viaggio
dopo le insidie dopo la fatica
il riposo dei cammelli il vociare
dei negozianti la contrattazione
di uomini di donne.
Vennero da Bukhara dal Turkestan
da Tabriz dal Malabar
dagli empori di Tiro e poi dal Gange
dalla splendida Xian
da Samarcanda affluirono tutti
su questa via i nobili prodotti.
La regina delle fibre la seta
vinse trionò su cantoni diversi.
Fu il bene più prezioso
che potesse sorridere ai viventi.
Nessun oro mai poté eguagliarne
lo splendore inconcusso, l’eccellenza.
Dettò le leggi della convivenza
superò ogni chiuso isolamento
recò il giovamento
della conoscenza, della ricchezza
dell’incontrarsi in diversità.
A questa via maestra a questo ponte
ti affido ancora, o seta.
Va, oltre i monti i fiumi ed i deserti
supera ancora l’acre diffidenza
reca e diffondi in tutte le contrade
la varia luce della tua ricchezza.
India
L’anima tua è il mondo intero, o India.
II rapimento della mente assorta
nel respiro del tutto.
L’eleganza del sari che suggella
la grazia principesca delle donne.
La teoria dei pellegrini migranti
di santuario in santuario
docili al sentimento del divino
lungo le tracce dei richiami antichi.
Il misero abbandono
dei corpi martoriati per le strade.
Il perenne lavacro delle folle
nelle acque del Gange.
Il trionfo del fuoco
dissolvitore della umana forma.
L’odore persistente delle cose
in decomposizione
qui dove il tempo scorre
più lento e si raggruma nel presente.
I teneri occhi di cerbiatta
che annegano un sorriso
più forte di qualsiasi sventura:
in essi soprattutto
mi riesce di leggere il tuo volto,
o India, il tuo messaggio
rivolto ad ogni cuore.
Cuoriforme tu sei nella struttura
dalle sublimi vette himalayane
all’intrico selvoso del Tamil
dallo snodo di fiumi nel Bengala
all’incanto desertico di Thar
dal Deccan sentinella
incapricciata di ere passate
alle coste perlifere
impazzite di sole e di monsoni.
Cuoriforme triadica perfetta
nella legge continua dell’ascesi
tu che soggioghi il verde della terra
al bianco dell’umano e l’uno e l’altro
consacri all’arancio del divino,
paese dell’antica radicata
sapienza, terra del Krishna e del Buddha,
o culla prediletta
dello spirito, o madre,
namastè, India.
Le piume dell’Indio
Indio d’America, all’erta: inizia
la Conquista, il tuo nemico è a Oriente.
Sulle tue spiagge sbarcano i Marziani
di Cortéz e vogliono salutarti
all’urlo di Santiago.
Presto conoscerai spade e cannoni
i veri messaggeri
di ogni civiltà. Gli eccelsi fieri
dei ebbri di sangue non corrispondono
al pianto disperato
del tuo popolo ammaliato da questi
strani iddii tutt’uno coi cavalli.
Il sangue delle vittime
non vale a conservare il tuo potente
impero dal Yucatàn ai confini
del Texas, il bel Serpente Piumato
ti ha lasciato preda
di una irresistibile violenza
fatta d’inganni di guerre di morbi.
Combatti e muori. Non vedrai i tuoi figli
esiliati da Tenochtitlàn servi
dei nuovi demoni crociati, quindi
consegnati a hidalgos a miniere
vile merce senza nome, una stirpe
distrutta dispersa perché dannata
alla disperazione.
Sull’Altopiano Mexica ora regna
la pace del deserto,
non alibi di vita per i vinti.
L’Impero Azteca è stuoia per i nuovi
barbari d’Europa. Una vecchia storia
che sempre si ripete perpetuando
la telaragna dell’iniquità.
Ora nella Nueva España si corre
la conquista dell’oro e dell’argento
che vale pure il dispendio di qualche
milione di Amerindi. L’Eldorado
non è continente per dilettanti.
Anche questo lo vuole
il dio martirizzato del curioso
barbato. E per secoli catene
sono i sogni sgomenti degli eredi
di Montezuma, figli senza volto.
Qui e altrove il mercato si prolunga.
Non mancano i riscontri.
S’innalza ancora l’oro sugli altari
si gettano i dissimili nel fango
si celebra il fastigio della razza
si pone all’asta la fatica umana
si fa terra bruciata.
Si avvalla lo steccato, si fa solco
profondo sulla terra.
E da quel tempo nel tuo continente
i Marziani venuti di lontano
accecano l’acqua attorno ai tuoi figli
disperdono disprezzano il tuo sangue
antico, loro i gringos
stranieri alla tua terra al tuo costumbre.
Rifiutano lo scambio della seta,
guidati dal miraggio
del profitto, osano contrapporgli
la vile compravendita del ferro.
Rifiutano disprezzano
le tue piume variopinte,
o Indio.
Rus
lo sono Rus il buon dèmone intatto
di questa terra. Trascorro veloce
dai ghiacci alle steppe, dal Baltico alla
Siberia desolata. Io signoreggio
sui fiumi sui colli sulla pianura
sconfinata. Scendo con la silente
neve e brucio col sole polveroso
dell’estate, flagello con la pioggia
e la tempesta le zolle, riduco
il terreno in fango. Dormo assopito
paziente l’uggioso sonno invernale
e risveglio la prepotenza ebbra
della primavera. Tutto governo
dalla cruda immensità dello spazio
allo squadernarsi delle stagioni
dalla linfa delle snelle betulle
alla corsa sfrenata dei cavalli.
Entro nei cuori ed agito passioni
di vita di morte senza riguardi
non conosco confini né misura.
Entro nel tempo e sempre mi avvicendo
nuovo ed intatto. Conosco la voce
malinconica e possente della Volga
della materna sua corrente, sono
l’eco incantata del silenzio rotto
dal trasalimento di un fruscio d’ali
nel bosco. Sono patria
per l’anima smarrita, il canto intono
di ogni umano dolore.
Il dolore sono io della terra
come orizzonte irresoluto e vasto
come il cielo di Russia.
Sono l’eletto arcangelo Michele
io che difendo le sue nere zone
e mi alleo con il gelo e la tormenta
le infinite verste contro il nemico.
Con il tempo io mi alleo contro chiunque
dall’Asia o dall’Europa
sfidi la santità di questa patria.
Chiamo il popolo tutto al sacrificio
armo la spada dei padri e dei figli
trasformo il contadino in un eroe.
Io sono la disperazione salda
generosa che il Tataro respinse
che fermò il Francese alla Moscova
che a Stalingrado inchiodò il Tedesco.
Conosco della guerra la spietata
follia lo strazio acuto della strage
la vendetta e il richiamo della pace.
Vivo negli occhi bruni di ogni uomo
teneri come quelli di un agnello
brillo nel riso verde di fanciulla
erro nel sogno ardito come il vento
danzo di luogo in luogo senza freno
innamorato mi sposo alla terra
con il canto straziato del violino
e lambendo i girasoli trascorro
nell’aria sciame d’oro.
Il destino del Bounty
Alla buon’ora, capitano! Prendi
il vento, affidati alle onde, presto
manovra il tuo munifico veliero.
Mantieni costante la rotta a Sud
oltre l’Equatore. Lascia alle spalle
il Polo Boreale
regno inquieto della vetusta Europa
terra d’insurrezioni
di frammassoni di rivoluzioni.
Meglio sul mare vivere tempeste
e superarle entrando nell’Oceano
Pacifico, poi dietro a Cook raggiungere
Tahiti paradiso d’innocenza
degno approdo dell’Uomo
isola lieta ombelico del mondo
occidentale, feconda di palme
e di vita nella gioia, pittura
del sole e del colore
terra liberale terra da amare
dove il Bounty di fiori s’inghirlanda.
Esule da Tahiti, o capitano,
àncora ai rottami la tua salvezza
l’approdo qui ritarda, capitano,
raziona acqua e viveri per il lungo
viaggio di ritorno.
La calma silenziosa ti minaccia.
Lungi è la terra morta dei ricordi
che calcina le linfe
quante il mare dissemina nel tempo,
la bianca costa d’ossi
di seppia, lungi la terra di perle
di coralli, perduta è la conchiglia
di Oceania. In Inghilterra il Pandora
attende te con l’affiatata ciurma.
Lascia ancora l’Europa
terra incorreggibile litigiosa
di guerra, lascia pure indietro i doni
di Pandora, abbandona
il modesto Atlantico per il vasto
Pacifico, ritorna al tamurè
sulle tracce della munificenza.
Il Bounty è perduto sacrificato
al mare nell’incendio
delle speranze dei sopravvissuti.
Inutile cercarlo. O capitano,
stringi il vento! Guadagna alla fortuna
il tempo che rimane
affidati di nuovo al mare aperto.
Qui o altrove per tutti sempre uguale
è la sorte di Ulisse:
si bene calculum ponas ubique
naufragium est [2]. Sempre arduo navigare
non sempre soccorrevoli i delfini.
Sull’Isola beata di Gaugin
sulle sue palme sugli ultimi eredi
del sogno occidentale
incombe all’orizzonte Mururoa.
Omaggio a Morandi
Nel vano della stanza entra il sole.
Vibra la luce
e frange la maglia fonda dell’ombra
e svela il canto muto delle cose
spente nella cipria bianca del tempo.
I corpi prima smorti sono tesi
dalla corda breve di questa mora
sporta sulla tela del quadro
solo nello spazio largo del muro
scabro, sulla massa
della coppa di vetro
sita sul piano dello stipo scuro
alto in fondo, sul nero
denso del libro chiuso con le note
posto nell’orlo della panca greve.
Canta l’oro vecchio nel raggio fisso
al volto dolce e pigro delle cose
vive nella teca d’ambra del tempo.
Duende
II toro nero fermo nell’arena
che fa propria la forza della terra
e la traduce all’occhio fiammeggiante.
II saettare impietoso del meriggio
quando l’ora è nemica della vita
sulla terra annerita dalla vampa.
Il martello di chitarra gitana
che rimbomba nel cuore desolato
scandendone crudele ogni tormento.
Ogni forma di vita che si scontra
con la morte, ogni suono truce e nero,
ogni fremito violento, è duende.
Da Chieti Giovedì Dieci Settembre
all’alba di un giorno di tarda estate
il Millenovecentonovantotto.
Dedicato
L’ikebana composto del tuo corpo
s’illumina del raggio della Luna
che tenera accarezza questa notte
sospesa sull’affanno delle ore.
Il vortice del tempo si è posato
sulla riva nel silenzio del vento:
il tuo respiro e la soffice brezza
che di lontano leva il palpitare
del mare. Sulla trina dei capelli
si accumula il profumo del tuo sonno
ardente nell’incombere dell’alba.
Domani il piacere di questo incanto
trasparirà al fondo dei tuoi occhi
tersi nell’acqua chiara del mattino.
dal mittente di sempre
[1] È un codice di condotta e uno stile di vita – simile al concetto europeo di cavalleria e a quello romano del mos maiorum - adottato dai samurai (o bushi, da cui il nome), cioè la casta guerriera in Giappone (Bushido, in Dizionario di storia, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2010. URL consultato il 21 gennaio 2018).
[2] Petronio, Satyricon, 115, 17 (ndc).
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KATÀ TEN TOU KHRÒNOU TÀXIN ed appunti vari
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