Cielo, Terra, Silenzio

 

 

Paràdoxon Oppositorum
Prefazione


Il paradosso degli opposti è quello di non poter esistere, quantomeno di non poter significare, né coincidendo né escludendosi; di non poter convivere, ma di doversi reciprocamente presupporre; di non poter coprire pienamente l’incommensurabile circolarità, ma di doversi alternare su una circonferenza solo apparentemente limitata, di non poter occupare una retta d’infiniti punti, ma di doverla spartire, forse con equità,
ab aeterno. Almeno ad un primo approccio.
      La finitezza umana, capace tuttavia di un debordante pensiero proteso all’“illimite”, per quanto in un’infinità di semiretta, è in perenne, angoscioso stupore consapevole del proprio punto di origine, ma non delle ragioni, del tutto ignaro, com’è, dell’interminabile verso opposto di cui ogni semiretta è carente.
Sicché non sorprendono gl’interrogativi atavici, antichi, prossimi nel passato, presenti, che costellano il percorso del cammino esistenziale della specie che ha coperto il sentiero dall’insipienza alla sapienza, termine, il primo, che va liberato da ogni sguardo denigratorio, come va denotato il secondo in modo disadorno, spoglio di qualunque esaltazione elogiativa: insipiens e sapiens siano le due condizioni di originaria ignoranza, sconfinata, e di acquisita conoscenza, sia pure segnata da sconosciuti, ma evidenti confini.
Ciò detto, la scelta più avveduta, più saggia di chi ha voluto avventurarsi nel groviglio dei misteri che ci avvolgono come un’atmosfera senza azzurro e carente di ossigeno, non poteva che essere quella di osservare, di descrivere, di ammirare, di tremare, astenendosi dal decodificare, dal pronunziare sentenze, e lasciando di riga in riga un fluire insoluto d’irrisolti enigmi.
Enigmatica è persino la propensione alla trilogia, la terna delle coppie cielo-terra, luce-oscurità, suono-silenzio, laddove il primo binomio si consideri in antitesi come espressione metaforica dell’opposizione materiale-immateriale. Criptica per quel ritorno al tre che da sempre appare all’uomo come il numero perfetto, in richiami talora matematici, come sintesi pitagorica del pari e del dispari, ad esempio, o come simbolo della superficie, essendo tre i vertici capaci di dar luogo alla prima area possibile; spesso religiosa, come nel dinamismo unitario della Trinità cristiana, Padre, Figlio, Spirito Santo, creazione, incarnazione e comprensione, nella teofania indiana della Trimurti: Brahma, Visnù, Siva, creazione, preservazione e distruzione, o nella triade greca Zeus, Poseidone, Ade, ovvero cielo, terra, inferi; penso perfino all’albero considerato come manifestazione della presenza divina nella sua partecipazione ai tre diversi stati dell’essere e dell’universo [1].
Senza voler estendere alle dimensioni numerologica, esoterica, magica, cabalistica, divinatoria le virtù di un numero che si presenta in maniera sorprendente in circostanze svariate e singolari: penso a caso a Dante, alle tre cantiche della Divina Commedia nei tre regni dell’aldilà, al Cerbero tricefalo; o alla Bibbia, ai tre viandanti che annunciano ad Abramo la nascita di Isacco, ai tre giorni impiegati da  Maria e Giuseppe per ritrovare nel tempio Gesù che conversa con i dottori, ai tre canti del gallo, alle tre croci sul Golgota, ai tre giorni intercorsi tra la morte e la resurrezione del Cristo …
Senza voler inopportunamente indugiare su ciò che è stato evidenziato esclusivamente in vista dei successivi scopi esegetici, possiamo affermare che il senso della scelta in direzione della trilogia potrebbe risiedere però, e forse, soprattutto nell’inconscia tensione a voler superare la forza separatrice della dualità, nella quiete appagante del tre che unifica e comprende in una, sia pur non voluta, angolatura quasi esoterica …
La dualità è certamente inquieta, perché, come si è detto, irrisolvibile per la natura stessa dei suoi elementi antinomici, benché un adeguato approfondimento possa condurre alla comprensione che gli opposti, in perenne spinta all’accostamento e al respingimento fra loro, sono necessari alla dialettica dei moti universali, in forme diverse di vita. Del resto gli stessi componenti della dualità uomo-donna, entrano in contatto per un’attrazione magnetica che li avvicina fino a permettere loro di unirsi per il trait d’union della genitalità – ma, beninteso, non di confondersi e di annullarsi – e li respinge dopo l’acme di un abbraccio mai compenetrante, restituendoli alla loro solitaria essenza.  Questo nonostante il saggio scorga nel TAO il «simbolo di una filosofia e di una spiritualità che cercano di mediare l’inconciliabile, attraverso una dialettica degli opposti che si esemplifica nel tentativo mai risolto di compenetrazione delle due forze, il quale comunque determina un moto perenne che è ricerca e aspirazione».
Se proviamo a tessere un continuum ideale fra i tre quadri del boccascena saggistico, si possono vedere apparire un gesto divino che crea cielo e terra, sineddoche dell’universo, una forza che, di seguito, fulmina luce e la spegne, alternando vista e cecità sulle scene, una mano che sparge infine suoni e pause nel fermento vitale generato. Tutto come se però non fosse diretto all’esclusiva fruizione umana, mancando ai quadri della rappresentazione il coinvolgimento di tre sensi peculiari quali il tatto, l’olfatto, il gusto e prevalendo in assoluto tutto ciò, e soltanto ciò, che si vede e si ode, se si eccettua lo stimolo prodotto dai sensi della vista e dell’udito sul piano cenestesico. Solo l’ingresso definitivo in un regno così generato permetterà all’uomo di esperire, con tutto il corredo dei suoi strumenti sensoriali, la realtà in cui viene immerso e dalla quale è strabiliato e frastornato.
Sta di fatto che la trilogia che ci accingiamo a leggere sembra quasi soltanto avere occhi per guardare, orecchi per udire, facoltà mentali ed anima per filtrare e provare sensazioni. Intelletto, soprattutto, che scorge e pensa, e pensa, senza voler mai giudicare, riconoscendosi inadeguato ad una simile funzione. Qualunque lettore potrà del resto cimentarsi a suo piacimento nel tentativo di cogliere steli “irrecidibili”, potrà sognare di sradicarli, senza convincersi, tuttavia, di aver sottratto al campo infinito della conoscenza un fiore di verità.
Terra e cielo, dunque, luce ed oscurità, suono e silenzio, lungo fili che per la loro sottigliezza stentano a divenire robuste funi logiche e sono più accostabili ai voli che spiccava il canto di Pindaro. Né potrà mai essere diversamente di fronte al panorama del mistero, che dice sempre senza dire, che sollecita al dire e sorride di quello che sente dirsi. Sicché sovente il pensiero che vuole correre lungo rigorosi sentieri, si perde nel sogno della poesia, o lo conquista. L’universo «propone modelli incomprensibili», scrive il saggista, che mentre elabora avverte il non-senso della sua fatica. Sovrasta però il desiderio d’indagare, zampilla dalla nascosta speranza, pur sempre viva, di trovare, anche un solo frammento, anche una scheggia di diamante persa dall’arcano, «e tenta di superare il turbamento con la speculazione, la ricerca, la fede», di cercare perfino «il binomio tra divino e scienza nelle simbologie, nei contenuti visibili, nei riflessi indiretti che il quotidiano insegna a tradurre», quando tutto questo non sia soltanto una fata morgana che porge alla sete un’acqua allucinata. Già le tracce che riportino ai primi passi dell’umanità sono dense di interrogativi e di incognite, figuriamoci il tentativo di capire le distanze e le ampiezze degli spazi sconfinati, di un tempo il cui ritmo, qualora sia ammesso, è sfuggente. «Cielo di astri o cielo di uragani, cielo di mattini sereni e di notti impenetrabili: sorridente o minaccioso, freddo o ardente, scuro o luminoso, il cielo è in alto. Almeno così l’uomo l’ha sempre sentito». In alto, se l’alto abbia senso in un universo senza limiti, non letto da una dimensione limitata come quella dell’uomo, anche nella sua dislocazione, ma soprattutto, lontano, tanto da non essere nemmeno pensabile, se non per illusione.
Come si diceva, tuttavia, non è intenzione dell’autore soffermarsi su speculazioni del genere. La sua descrizione si distende nell’osservazione dei comportamenti e dei sentimenti che l’essere umano sviluppa di fronte alle insondabili forme del reale, senza preoccuparsi di offrire spiegazioni dei fenomeni. È il ruolo degli elementi considerati che l’attrae, in tutto ciò che essi suscitano e condizionano. Questo pur deprecando la rinuncia assoluta alla ricerca della conoscenza, espressa chiaramente nella critica ai versi carducciani, anche perché «l’intelletto è una grandezza sconosciuta nell’universo conosciuto»:

          Meglio oprando obliar, senza indagarlo,
          questo enorme mister de l’universo!

Poi, per vena musicale, come l’indole lo sospinge, di tanto in tanto si abbandona a comporre melodie di scorci di una meraviglia che è tale anche per la sua impenetrabilità.

La notte ha elargito stelle. Frammenti di esistenza fin quasi all’orizzonte. Ascolto il silenzio e l’apparente immoto del cielo. E l’ombra parla di spazi e di possibilità diversi, svela passi del divenire, comprende l’angoscia dell’uomo.
          …io lo so perché tanto
          di stelle per l’aria tranquilla
          arde e cade...
Anche nel momento estremo della tragedia il segno dell’universo purifica. Ma questa notte è un incanto la pioggia di meteoriti che prepara l’eclissi sullo smarrirsi di uno stanco millennio.
L’alba discopre un incerto sereno che il sole si affretta a dissipare.
All’improvviso la luce del giorno sembra velarsi, l’aria si fa più fredda. Senza crepuscolo e senza rossi di orizzonte la notte viene dal sole che annerisce come per sovrapposizione del suo opposto. L’accadere consueto d’un tratto e per un tratto viene sconvolto, non si riconosce in un dettaglio che lo sovverte, si smarrisce in un attimo che non lo contiene, avverte, anche se in modo assai marginale, la propria precarietà. Al ripristino immediato della quotidianità, torna a convincersi di essere l’unica realtà possibile. E riprende a scandire i suoi ritmi vitali.
Ma quanto accaduto, anche se parte dell’equilibrio di un sistema, di certo rompe l’andamento ritmico, quasi una cesura; come se la metrica universale avesse un tempo irregolare, o non avesse tempo. Allora oltre l’usuale cadenza potremmo dire che il tempo è nell’impenetrabilità del passato; il quale ha un punto di frattura in cui il silenzio coincide con l’Assoluto […].
Perso nei deserti dell’inutile, l’uomo involve i sentieri del pensare, modella miti di cera che il sole dissolve, anche se morente, come in questo istante d’eclissi! E l’evento nulla modifica nei presupposti dello statu quo. La curiosità è di tutti, lo stupore di pochi; nella curiosità, l’effimero, nello stupore, l’anelito. La notte improvvisa e innaturale non ha più nemmeno l’ancestrale carattere di spavento; ma chi sa ascoltare avverte nell’ombra i microelementi di una esistenzialità perduta, ricompone sequenze di un’armonia che l’universo esprime nel suo divenire.

      Se nella vita reale l’alternanza di luce e di oscurità è la conseguenza delle rincorse circolari dei corpi celesti e delle loro rispettive posizioni nello spazio, nelle pagine della trilogia tale avvicendamento assurge a variabile valore simbolico. Quello ad esempio del cono d’ombra proiettato dall’eclisse che accompagna la morte del Redentore, che sembra esprimere una natura consapevole dell’errore che ha indotto la passione, o quanto meno il buio con cui metaforicamente l’uomo viene richiamato dal Padre al riconoscimento del proprio intelletto obnubilato ed alla speranza di luce che incorona il disco annerito. Non a caso la buia notte di Betlemme era stata rischiarata da una vivida cometa che mirava ad esprimere lo stesso annuncio salvifico, l’opportunità di rintracciare il sentiero del riscatto. Non a caso Dante nella “selva oscura” intravede, illuminato dalla luce della grazia divina, il dilettoso monte / ch’è principio e cagion di tutta gioia.
In prospettiva la luce metaforica allunga la sua emanazione oltre il «fosco Medioevo», «verso l’alba rigeneratrice dell’Umanesimo e lo splendido zenit rinascimentale», ma pure protende un’oscurità traslata che penetra «nei sipari retrivi del Concilio tridentino» per dare presto luogo, senza rimpianti, «all’occhio sagace di Galilei», capace di aprire con il raggio della sua pupilla «un varco all’universo».
E rinviando all’analisi del saggio, luci ed ombre duellano lungo i secoli, per sopravventi mai duraturi, per ondulazioni da cui scaturiscono ere di chiari orizzonti e di tramonti senza colori e rapidamente inclini alla notte, «luci violente ed ombre immense, passaggi di notti sul sole e riemergere di raggi». Con la certezza che nemmeno alla più cupa oscurità notturna non farà seguito il ritorno della luce.
Il largo movimento musicale che in modo inimitabile, per la prima volta e per sempre, scontornò in ogni direzione una pagina scritta, sovrapponendola all’infinito, schiude il terzo elemento della trilogia, in una riduzione microcosmica che la sintetizza e la rende accessibile, che fonde materiale ed immateriale, luce ed oscurità, nell’alveo sterminato di un silenzio solo “fingibile”. Finzioni della mente che, non potendo simulare se non a partire da elementi conosciuti, appresta verosimili composizioni dell’esperienza reale e concepisce intuizioni di ciò che tale esperienza permette oltre ogni conoscenza logica e discorsiva. Io nel pensier mi fingo, avverte il recanatese. Ed allude a quei “sovrumani silenzi” non udibili, a quella “profondissima quiete” irraggiungibile, ma nonostante tutto consapevolmente immaginabili ed in qualche dove possibili.
La citazione in avvio ha la funzione di un esergo: annuncia lo spazio della trattazione riservato alla condizione che in sé racchiude la taciturna attesa di ogni vibrazione sonora, di ogni fenomeno acustico che rende viva l’immobilità dell’assenza, ma pure di ogni accensione e di ogni assunzione di materialità, di ogni manifestazione, infine, che in virtù di un movimento osservabile o latente, è indizio di esistenza. È il ruolo coerente del “tertium datur”, che non è solo possibilità, ma unione, fusione, di tutte le dualità che si contrastano, nell’unità dell’essere. È la forza del silenzio interrotto, l’unica “metà duale” che in apparente contraddizione può disporre di una dimensione accogliente e non escludente. La materia non trova compatibilità con ciò che non ha consistenza fisica, la luce ricaccia l’oscurità e ne viene estromessa, il silenzio può invece “recipĕre”, accogliere, sopravvivere come contenitore del suo opposto, la vibrazione acustica, additando, ad ogni “discordia”, la maniera di poter essere sanata. «Come in una partitura d’orchestra in cui le pause non negano il suono, anzi ne sottolineano i parametri interni, il silenzio conduce all’essenza delle voci».
Qui dunque è il silenzio che sollecita il pensiero, l’indefinibile, indecifrabile, udibile-non udibile vuoto impossibile di vibrazioni. Vale la pena di osservare come tale condizione sembri esperienza nota, detta, quando al contrario è abitualmente sconosciuta, taciuta.
Il silenzio “umano”, per non dire a portata di uomo, in quanto assenza udibile, nega se stesso, e già la sua denominazione ne costituisce una violazione. Come esperienza empirica esso non può che corrispondere ad un fruscio indeterminato, magari riposante, magari angosciante, in cui nessun suono o rumore spicca e si distingue. Il silenzio non udibile, quello “sovrumano” intuito dal Leopardi, non può essere ricevuto, perché non esistono mezzi atti a coglierlo: qualunque strumento, infatti, orecchio compreso, può ricevere e restituire soltanto il falso silenzio, quello udibile e denominabile. La vera assenza di ogni udibilità, il vero silenzio, a tutti ignoto, è la morte.
C’è tuttavia anche una semantica metaforica nella parola che in senso proprio denota l’assenza di “perturbazioni sonore”, un’accezione che allude per ossimoro al pieno vuoto, alla mancanza assoluta di qualcosa che viene preso in considerazione, sia esso animato o inanimato, concreto od astratto, accezione per la quale si può parlare di silenzio dei sentimenti, di silenzio epistolare, di silenzio del verde in una distesa desertica, di silenzio dell’ispirazione per un artista, di silenzio dell’amore per l’odio sterminatore antisemitico …
Questa, soprattutto, ci sembra l’ottica da cui nascono le intuizioni e si sviluppano le analisi del saggio. Dove acutamente si rileva che tutto, però, è in funzione dell’uomo, della sua sensibilità, della sua intelligenza. L’esercizio dei sensi non può ridursi ad una fruizione meccanica che svuoterebbe la ricchezza e la grandiosità dell’esperienza del mondo: «L’ascolto non è mai scontato», e come l’ascolto nessun’altra ricezione sensoriale. Tuttavia un avvertimento sprona all’affinamento, all’impegno, al duro sforzo, perché «alla sorgente non si arriva per sentieri battuti. La dimensione del suono si configura nei percorsi dell’anima che ascendono per cammini impervi fino a schiudersi e contenere l’universo o gli universi possibili».
Non poteva mancare, nell’analisi, quel suono articolato e strutturato che dalla mutezza si stacca come verbum, voce che dà voce al silenzio ed a tutto ciò che dalla sua metafora emerge, tutto ciò che erompe dal nulla. Parola che in sé porta tuttavia i limiti dell’essenza umana, capace di dire fino al limitare di quel confine, capace comunque di oltrepassare ogni altra possibilità descrittiva e speculativa che la natura abbia offerto alle sue creature: «La parola come atto comunicativo ha origine dal silenzio, ne è un frammento, in qualche modo ne riduce la comprensione».
Il movimento finale della meditazione sinfonica sale per i gradini della più alta letteratura, alla volta dei vertici che la parola, appunto, ha concesso all’uomo, in una riflessione che cerca nel Poema Dantesco ogni silenzio possibile, per dare risalto al cammino dell’anima, che dal silenzio della grazia perviene ai cori della beatitudine. Fin dove manca “possa” alla fantasia, alla parola, al piccolo-immenso essere che nasce e trascorre, che palpita e si arresta, che grida e tace, che gioisce e soffre, prima naufragando con i sensi e con l’intelletto nel mare delle bellezze naturali, poi, senza più coscienza, nei flutti di un universo dalle rotte accecate, nella prospettiva che in vita paventò di incontrare il silenzio di Dio.

Amato Maria Bernabei



[1]«Utgard, il Mondo di Sotto con le radici che sprofondano nella Terra; Midgard, il Mondo di Mezzo il cui tronco rappresenta il piano di superficie; Asgard, il Mondo degli Dèi con i rami che si tendono verso i cieli» (Aurelio Angelini, Anna Re, Parole, simboli e miti della natura, Palermo, Qanat).

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